E la Lega si riscopre
uguale agli altri

La vecchia saggezza popolare insegna che «chi va al mulino s’infarina». Uno dei padri della Repubblica, Pietro Nenni, aggiungeva che «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro... che ti epura». Entrambe le frasi sembrano calzare a pennello per una Lega Nord che, dopo la famosa «Notte delle scope» – aprile 2012 – pensava di avere fatto piazza pulita al proprio interno. Prima la reggenza di Maroni, poi il passaggio di consegne con Salvini per una Lega 2.0 da tablet e post, nella forma molto lontana dal cappio sventolato a Montecitorio da Luca Leoni Orsenigo il secolo scorso.

Era il 1993, gli ultimi fuochi della Prima Repubblica, e il Carroccio era sbarcato in forze a Roma (ladrona, hai visto mai...) con l’intenzione di fare piazza pulita dell’ancien regime. Dal punto di vista elettorale la missione è stata sicuramente compiuta: il Carroccio ha governato (non poco) a braccetto di Berlusconi e si ritrova ora nella paradossale situazione di essere il partito anagraficamente più vecchio di questa fase politica, considerando scissioni, annessioni e cambiamenti di denominazione altrui. Dal punto di vista della pulizia interna, beh, gli ultimi episodi legati al Pirellone qualche campanello d’allarme l’hanno fatto suonare, soprattutto in una base, ora più imbarazzata che furiosa. Chi pensava di avere archiviato la questione morale padana con qualche ostensione di ramazze, scaricando Belsito, Bossi jr. (e fondamentalmente Bossi senior) è improvvisamente tornato con i piedi per terra.

Non è una peculiarità leghista, per carità, basta ricordare il bailamme di Quarto di Napoli con l’ex sindaco grillino – tanto per allargare lo sguardo ad altri partiti sedicenti portatori di pulizia e trasparenza – ma la cosa fa pensare, e non poco. Anche perché è successo in quella Lombardia che ha interrotto la scorsa legislatura (la quarta consecutiva di Formigoni) non sotto le bordate delle opposizioni, ma degli alleati: nella fattispecie proprio il Carroccio, pronto a cogliere al volo l’opportunità di mettere un proprio uomo ai vertici del Pirellone. Quel Roberto Maroni ora quell’attimo in difficoltà: nel mirino della magistratura sono finiti prima il vice Mantovani (di Forza Italia, d’accordo...), poi un uomo-chiave come Garavaglia e infine Rizzi. Magari non noto ai più, ma fedelissimo del governatore e soprattutto regista di quella riforma della Sanità: comparto che da solo vale l’80% del bilancio della Regione, tanto per capirci. Mica un pinco palla qualsiasi.

Insomma, di inchiesta in inchiesta, pur continuando ad aggrapparsi a qualsiasi distinguo possibile, i leghisti si stanno scoprendo abbastanza uguali a quei partiti che tanto hanno combattuto. Meno degli altri, sostengono loro – e probabilmente a ragione – ma comunque non diversi, anche solo per le modalità di gestione del potere adottate al Pirellone, e non solo. Leggi piazzare uomini di fiducia in ogni dove, spesso selezionati sulla sola base dell’appartenenza e militanza, meno sulle capacità. Lo fanno anche gli altri, si dirà: vero, ma la lotta alla lottizzazione delle poltrone era una prerogativa leghista, almeno quella barricadera della prima maniera, tutta tesa alla distruzione del potere costituito. Altrui, of course.

Chi ha sbagliato pagherà, tuonano ora capi e capetti, Salvini in testa, annunciando punizioni esemplari: tutto già visto in altri tempi e partiti che il Carroccio ha meritoriamente combattuto, salvo cadere nei medesimi vizi una volta arrivato ai piani alti del potere. Perché alla fine non basta agitare scope e ramazze per fare pulizia, bisogna semmai evitare che la polvere finisca sotto i tappeti.

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