E ora l’America
è ad un bivio

L’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti è probabilmente il più importante evento di politica internazionale dalla dissoluzione dell’Urss. Se mantenesse fede a tutto ciò che ha detto in campagna elettorale – al di là dell’abusato slogan «Torniamo a fare grande l’America» – rapporti e alleanze vecchie di decenni potrebbero essere rivoluzionati, dando vita a un nuovo mondo molto diverso da quello precedente questo fatale 8 novembre. Le prime parole di Trump dopo la vittoria – «Intendiamo avere buone relazioni con tutti i Paesi disposti ad avere buone relazioni con noi.

Anteporremo sempre gli interessi dell’America, ma siamo pronti a trattare con tutti, cercando un terreno comune e non il conflitto» – significano tutto e nulla. Per capire in che direzione si muoverà l’America, cioè se prevarrà un nuovo isolazionismo o la necessità di mantenere comunque lo status di superpotenza, bisognerà attendere le prime mosse del presidente dopo il suo insediamento il 20 gennaio.

Ha destato scalpore il fatto che il primo capo di Stato a congratularsi con Trump sia stato Putin, per cui il neopresidente aveva già avuto parole di apprezzamento. Se questo preludesse a un serio riavvicinamento tra Mosca e Washington, potrebbe produrre anche sviluppi positivi: per esempio la graduale abolizione delle sanzioni comminate alla Russia in seguito alla crisi ucraina (sgradite anche all’Italia), un serio tentativo di porre fine alla guerra in Siria e una più stretta collaborazione nella lotta contro l’Isis.

Un tale sviluppo, unito alla dichiarata intenzione di Trump di «risettare» i rapporti con gli alleati, potrebbe però avere anche conseguenze negative per l’Europa. Trump ritiene infatti che gli Stati Uniti non debbano più pagare per la sicurezza di tutti, ha messo in dubbio perfino l’utilità della Nato e espresso riserve sul famoso art.5 che obbliga Washington a correre in aiuto di qualunque membro venga aggredito. Non c’è perciò da meravigliarsi che le reazioni della Merkel e di Hollande al terremoto americano siano state abbastanza interlocutorie. La prospettiva che la Ue debba, in un momento come questo, aumentare le spese per la difesa non entusiasma nessuno.

Un altro punto del programma di Trump è la denuncia del recente trattato con l’Iran per fermare la corsa degli ayatollah all’atomica, tanto voluto da Obama. Secondo lui, bisognerebbe abolirlo perché troppo favorevole a Teheran (come sostiene Israele), ma non ha spiegato con che cosa intende sostituirlo. Vaghe sono anche le sue idee sull’impegno militare americano in Medio Oriente. Da un lato, afferma che gli Usa devono badare di più ai loro interessi, dall’altro è scatenato contro lo jihadismo al punto di ipotizzare addirittura un veto all’ingresso di musulmani negli Stati Uniti.

Un’altra delle sue bestie nere è la globalizzazione, perché ha portato alla delocalizzazione dagli Stati Uniti all’Asia di innumerevoli aziende e alla conseguente perdita di milioni di posti di lavoro. Anche per soddisfare il suo elettorato, sensibilissimo a questo tema, cercherà perciò di rinegoziare i trattati commerciali vigenti, a cominciare dalla Nafta, l’unione doganale con Canada e Messico. Un ritorno al protezionismo colpirebbe naturalmente anche la Cina, rallentandone lo sviluppo, ma la reazione di Pechino è stata singolarmente moderata, forse perché tra i piani di Trump c’è anche quello di rivedere l’impegno americano in Asia e la protezione oggi accordata a Giappone, Corea del Sud e Taiwan.

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