Economia e qualità
La sfida di Bergamo

Dalla soddisfazione per risultati quantitativi da primi della classe, alla sottolineatura del ruolo decisivo di quelli qualitativi, la riflessione sullo stato di salute dell’economia bergamasca ha segnato un importante passo avanti con il recente convegno su «Bergamo città impresa». Così come era stato giusto, all’assemblea provinciale di Confindustria, ricordare che Bergamo ha recuperato lo svantaggio dei sette anni di crisi, in controtendenza rispetto al Paese intero, poteva essere invece pericoloso accontentarsi di questo senza riflettere sulla profondità e severità della sfida. Passando dagli stucchi dorati del Donizetti alla sobrietà della Borsa Merci, la Bergamo economica ha fatto un bagno di realismo, perché tutte le nuove priorità sono emerse con chiarezza.

L’avvertimento é venuto in particolare da Roberto Vavassori, consigliere Brembo, che ha chiesto di pensare non solo ai fatturati ma ai contenuti della produttività, posizionando Bergamo secondo distretto manifatturiero d’Europa, molto più vicino al vertice della catena del valore. Per riuscirci, consolidando il ruolo dell’innovazione del nostro sistema, ben illustrato da Gianluigi Viscardi, occorre, «pensare in grande» e guarire il sistema intero dal «nanismo culturale» che Vavassori ha impietosamente denunciato. Come riuscirci? Cosa deve fare il nostro apparato produttivo provinciale per superare questo passaggio decisivo? I nodi possono essere sinteticamente riassunti in tre punti. Il primo riguarda il fatto che il manifatturiero, per non essere solo un fratello minore della modernizzazione, deve accettare fino in fondo ciò che l’innovazione impone, anche quando é scomoda, cioè quasi sempre. Restar fuori dal flusso di Industria 4.0 porta all’emarginazione e all’uscita dal mercato.

Qui, secondo il ministro Calenda, non ci sono attenuanti se si lascia passare un treno che, a sua volta, è una rara occasione messa sul piatto dal governo con l’effetto leva di una ventina di miliardi da subito, e uscendo per la prima volta dalle logiche burocratiche degli incentivi (lo slogan del ministro é «contaminazione» anziché incentivazione). Per profittarne, bisogna paradossalmente innanzitutto saperlo, e qui le associazioni sono decisive.

Di questo, Ercole Galizzi ha mostrato di essere ben consapevole, facendo capire che Bergamo é in pole per lanciare uno dei primi «Digital Innovation Hub» italiani. Ma l’imprenditore di Villongo, da quattro anni alla guida di Confindustria, ha riproposto il secondo dei punti decisivi: la necessità di saper far sistema. Una richiesta perentoria, ben al di là delle polemiche sulle «cabine di regia».

Se il Comune di Bergamo ha giocato d’anticipo, é pur vero che recenti riforme hanno indebolito due capisaldi istituzionali, Provincia e Camera di Commercio, che hanno contribuito a far grande la Bergamo del passato. Ha ragione Matteo Rossi a denunciare l’impari condizione del suo ente, su cui l’accanimento terapeutico anti-Province, impropriamente collocato nel capitolo della riduzione dei costi della politica, rende improbabile (vedi incidente in Brianza) la manutenzione di 1.290 ponti della bergamasca, curati 3 alla volta, ogni anno. Ma anche Rossi pecca della stessa demagogia, se mette in alternativa la manutenzione minuta e le grandi opere, perché sono entrambe necessarie.

Il terzo e ultimo punto decisivo per vincere la sfida qualitativa é però probabilmente il più importante, proprio perché parliamo di gap culturale, e riguarda la questione formazione, a Bergamo con grandi tradizioni (é stata evocata l’Esperia), ma tuttora in deficit per il basso numero di laureati rispetto alle medie degli altri centri di eccellenza europei.

Nel suo recente libro, Giuseppe Berta, anch’egli presente al convegno di Bergamo, ha denunciato questo paradosso dei lavoratori «sovraqualificati», cioè impiegati in funzioni non adeguate alla loro preparazione. Questione che é l’altra faccia della fuga dei cervelli all’estero, misurati a Bergamo in almeno 2.000 giovani.

E pensare, lo ha detto Alberto Bombassei, che si deve puntare oggi sul cosiddetto «operaio aumentato», cioè quella nuova classe di operatori che non ha mai conosciuto la catena di montaggio e governa i computer, nella dimensione 4.0 dell’internet delle cose. Operaio aumentato e laureato diminuito. Una contraddizione che la Bergamo della qualità, dopo i record della quantità, dovrà superare.

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