Embraco, esempio
di ritardo italiano

La chiusura in Piemonte degli impianti produttivi di Embraco, azienda brasiliana del gruppo americano Whirlpool, è diventata il simbolo della crisi produttiva in Italia. Sotto scacco è l’intero Paese con le sue infrastrutture inadeguate, la digitalizzazione in ritardo, i costi energetici più alti della media, un’amministrazione pubblica vocata al formalismo, un sistema fiscale oneroso, una giustizia trasformata in lentocrazia e infine una corruzione percepita come pervasiva.

Il fatto che la delocalizzazione colpisca l’Italia vent’anni dopo la manifestazione del fenomeno in Germania dovrebbe indurre l’opinione pubblica a riflettere sulle cause strutturali della crisi italiana. Non basta gridare allo scandalo per il comportamento irresponsabile dei dirigenti della multinazionale americana.

Occorre uscire dal clima di eterno vittimismo che caratterizza l’approccio nazionale verso i ritardi dello sviluppo economico. In primo luogo va chiarito che l’Europa non è un’associazione di beneficenza delegata ad assistere e a chiudere gli occhi sulle mancanze e le disattenzioni del sistema produttivo di un Paese membro. Se l’Italia ha vissuto un decennio perduto (2000-2010) e le imprese anziché investire in innovazione hanno pensato al controllo e quindi alla finanza la colpa non va cercata a Bruxelles. Questo non vuol dire che l’Unione Europea e chi finora ne ha dettato le mosse cioè Berlino non abbiano sbagliato l’approccio. Che la Germania esporti sino a quasi il 9% del Pil senza distribuire alcunché dei suoi surplus ai partner europei grida ancor oggi vedetta. Ma prendere a pretesto le inadempienze altrui per giustificare le proprie non aiuta a risolvere i problemi. Le imprese italiane sono per il 95% micro aziende e sono refrattarie a qualsiasi processo di fusione e di integrazione produttiva. Ancora radicata è la forma mentale tipica di chi percepisce l’azienda come proprietà familiare dove l’unica cosa che conta è il controllo. In un’impresa con una media di 250 dipendenti un addetto produce valore per 50mila euro l’anno mentre il suo collega di una micro azienda con al massimo 9 dipendenti ne produce esattamente la metà. La dimensione è strategica. Basta leggere l’ultimo studio in proposito pubblicato da Banca d’Italia per comprendere che nei centri di ricerca il problema è ben noto ma fa fatica a passare nei programmi dei partiti. E questo è un altro ritardo del Paese. Le fondazioni in Italia hanno funzione documentativa ovvero di preservazione del materiale documentario raccolto nel tempo. Agli attori della politica vengono quindi meno i cosiddetti think thank, quelli che orientano i governi e le forze politiche nelle loro decisioni in America, in Francia e in Germania. Il dibattito politico ne soffre e c’è voluta la crisi del 2011 con i tassi d’interesse sul debito schizzati a quasi il 6% perché l’opinione pubblica capisse che l’affluenza nei ristoranti, non è un indice credibile della salute economica di un Paese. Da allora le vicende nazionali sono segnate dall’emergenza. La crescita del 1,5% del Pil è la più bassa in Europa. Ci sono eccellenze nell’export italiano ma da sole non bastano per rilanciare il sistema industriale. Gli sgravi alla ricerca, la flessibilità del lavoro e il piano del governo Industria 4.0 hanno dato un contributo rilevante ma non hanno risolto il problema di fondo: avere imprese sufficientemente strutturate in grado di poter investire su attività produttive ad alto contenuto tecnologico. È lì dove si crea occupazione. La delocalizzazione si combatte con l’innovazione. Piccolo ma bello non solo è desueto, è dannoso.

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