Ergastolo per Mladic
ma la giustizia?

È stato tra i primi ad essere accusato di crimini di guerra e di genocidio dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia. E da ieri mattina è anche l’ultimo dei condannati dalla prima Corte speciale internazionale per crimini di guerra dopo quelle di Norimberga e Tokyo. Il Tribunale dell’Aja spegne la luce con la condanna all’ergastolo di Ratko Mladic. Missione compiuta? Il Tribunale ha consegnato alla Storia la memoria giudiziaria dell’orrore, sentenze decisive per le vittime.

Eppure non basta per dire giustizia è fatta. I processi non hanno contribuito alla riconciliazione, non hanno modificato le diverse narrative sugli accadimenti e sulle responsabilità politiche nei Balcani e nella Comunità internazionale. E se oggi la verità, almeno quella giudiziaria, emerge limpida dalla sentenza Mladic, non altrettanto si può dire del resto. Annunciare, come ha fatto ieri sveltamente Belgrado, che la missione è compiuta ed è arrivato il momento di lasciare il passato alle spalle e guardare al futuro, non è una buona strategia per sbaragliare definitivamente il rancore tra i popoli ex jugoslavi.

La pace non c’è nei territori tra Sarajevo e Belgrado. Né si può pensare che la riconciliazione possa avvenire sulla base delle sentenze. Le sentenze sono un’opportunità da non lasciarsi scivolare dalle mani, ma poi occorre altro per ricostruire la convivenza. Ciò che manca oggi nei Balcani è la consapevolezza della dimensione politica e morale dell’immensa tragedia. Le verità sulla guerra sono ancora purtroppo tre: croata, bosniaca e serba. E in ogni capitale si riscrive la storia tra negazionismi di comodo. Nessuno si fa le domande giuste per paura di ricominciare tutto daccapo. Quel clima di guerra, giustificata dalla teoria delle risse balcaniche, creato da spregiudicati politici che si consideravano condottieri di altrettanti miti nazionali, si respira tuttora, anche se non ci si ammazza più. Il Tribunale dell’Aja ha accusato 161 persone, tutte arrestate, 83 stanno scontando la pena in 14 Paesi europei, 5 in Italia; 19 imputati sono stati assolti, 13 processi sono stati trasferiti alle giurisdizioni nazionali dell’ex Jugoslavia, sono stati ascoltati 4.650 testimoni in 10.800 giornate d’udienza. L’ultimo processo a Mladic è durato 4 anni, il più lungo con 524 giorni d’aula. Il leader serbo Slobodan Milosevic, signore della guerra in compagnia di molti altri nemmeno finiti all’Aja, è morto prima della sentenza, presunto innocente. Sulla sua tomba a Pozarevac in Serbia c’è scritto: «Morto nel lager dell’Aja».

Basta questo per dire che la missione non è affatto compiuta. I vari Paesi dei Balcani in questi anni hanno avuto l’opportunità, in seguito ai dibattimenti all’Aja, di aiutare i cittadini a capire le responsabilità politiche, personali e collettive. Nessuno lo ha fatto. Così molti dubbi si nutrono sui processi locali nei confronti dei criminali di basso rango, la manovalanza della pulizia etnica che oggi vive accanto alle vittime di allora. L’entusiasmo è dunque fuori luogo.

Il merito maggiore del Tribunale dell’Aja è quello di essere esistito. Il punto debole è di essere stato costituito all’Aja, lontano dalle società dei Balcani, dove invece è stato bollato via via come anti-serbo, anti-croato, anti-bosniaco. Non fecero lo stesso errore gli Alleati con il Tribunale di Norimberga costituito nel cuore ideologico del nazional-socialismo. Restano le sentenze ed è già un gran risultato. Ma non si tratta di quella misura di giustizia globale che chiedono le vittime e il mondo, operazione cruciale per ricostruire un futuro.

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