Ferrari: rampante sì
Ma il Cavallino resti italiano

Indimenticato campione ferrarista ma oggi presidente onorario della Mercedes, uomo vincente e dalla battuta perfida, qualche settimana fa Niki Lauda ne ha sparata una delle sue: «Se la Ferrari fa solo spaghetti, che colpa ne ha la Mercedes?».

Si riferiva al settore corse, ovviamente, ma l’orgoglio nazionale si è sentito ferito in uno dei suoi simboli più unitari e invidiati. Perché è vero che, nel febbraio scorso, la società di consulenza specializzata nella valutazione dei marchi Brand Finance ha «declassato» la Ferrari dal podio di marchio aziendale più potente del mondo (il Cavallino è stato scavalcato dalla Lego), ma per noi pronunciare il nome Ferrari significa comunque e sempre dire tre cose importanti: Italia, eccellenza, forza economica. Da ieri, però non più necessariamente nello stesso ordine.

Ieri infatti la Fiat Chrysler Automobiles (Fca) ha annunciato che la sua controllata New Business Netherlands (in futuro si chiamerà Ferrari NV) ha depositato presso la Sec - ovvero la Consob di Wall Street - la documentazione per l’offerta pubblica iniziale del 10 per cento delle azioni ordinarie di Ferrari sul listino New York Stock Exchange. In parole povere, il gruppo guidato da Sergio Marchionne si appresta a vendere almeno una parte delle sue azioni sul mercato finanziario americano. In parole ancora più povere, la Ferrari diventa sul mercato internazionale una società olandese quotata a New York, anche se - assicurano - la sede fiscale di Ferrari Spa resterà in Italia (dunque «pagherà le tasse sui propri redditi come fanno oggi tutte le società fiscalmente residenti in Italia»).

La notizia della quotazione americana della Rossa non è in realtà un fulmine a ciel sereno. Già un anno fa Marchionne aveva annunciato lo sbarco a Wall Street «tra il secondo e il terzo trimestre 2015» e, come spesso capita al manager col pullover, è stato di parola. Bisogna dire che l’ingegnere italo-canadese - nonostante gli indubbi risultati raggiunti in questi anni - gode di migliore stampa all’estero che non in Italia. Dalla Confindustria è uscito sbattendo la porta (non lo hanno sostenuto nella richiesta di rivedere i contratti di lavoro), i sindacati hanno sempre sospettato che tutti i suoi «magheggi» finanziari fossero funzionali solo a portare via l’industria automobilistica dall’Italia, verso nuovi e più comodi paradisi fiscali e contrattuali.

Per il momento i fatti stanno smentendo i catastrofisti: Fiat è tornata a produrre nuovi modelli, un po’ di assunzioni sono state fatte, è iniziato anche il rilancio di un altro grande marchio sportivo italiano: quello di Alfa Romeo. Ma la Ferrari… Portare all’estero la Ferrari ha anche un significato simbolico che mette i brividi. Il timore che un giorno l’emblema più globale del successo italiano nel mondo possa essere un’azienda completamente straniera, come è capitato ad altri marchi ed aziende, in astratto esiste.

La contro-garanzia, dicono gli esperti del settore auto, è che l’eccellenza progettuale e costruttiva italiana, il «modello Maranello» insomma, è così forte e radicato nel suo territorio che nessun azionista di Wall Street si sognerebbe mai di spostarlo a Detroit. Fiat-Chrysler ha dichiarato che l’operazione «non comporterà lo spostamento di personale da Ferrari, né ridurrà i livelli di occupazione o le attività attualmente condotte da Ferrari in Italia».

Si tratta insomma soltanto di una «normale» operazione finanziaria resa inevitabile dalle attuali condizioni dei mercati globalizzati. L’anno scorso la Ferrari ha registrando ricavi per 2,762 miliardi di euro e un utile netto di 265 milioni. La stima dell’intera azienda si aggira sui 10 miliardi. C’è da sperare che il Cavallino Rampante corra nel mondo, ma resti italiano.

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