Fiat, il manager
nella Storia

Il crollo in borsa dei titoli Fca è un gigantesco omaggio a Sergio Marchionne. I mercati onorano così, a modo loro, l’uomo universalmente riconosciuto come uno dei più grandi manager di tutti i tempi, capace di prendere due gruppi industriali tecnicamente falliti - Fiat e Chrysler - e farne il settimo gigante dell’auto mondiale. Secondo gli investitori nessuno dopo di lui potrà fare cose altrettanto grandi. Ecco perché in molti ieri ne hanno venduto i titoli. Basta lasciare la parola ai numeri: dal 2004 a oggi i ricavi della multinazionale sono passati da 47 miliardi (quando c’era il solo gruppo Fiat) ai 141 miliardi di Fca; il risultato netto era sotto di un miliardo e mezzo di euro e oggi è positivo e supera i 4,4 miliardi.

Quanto alla capitalizzazione, si è passati da 5,5 miliardi a 60 miliardi, oltre dieci volte tanto. La lunga marcia del manager abruzzese è stata epica e gli storici sono già al lavoro per raccontarla, perché è di storia che stiamo ormai parlando. Quando prese in mano la Fiat, vecchia signora che ormai brillava solo per la sua argenteria (la Ferrari), il primo obiettivo fu il contenimento dei costi. Poi, nel 2005, arrivò quel vero e proprio capolavoro giuridico che fu la rinuncia al «put» di GM. Il colosso americano dell’auto, che si era impegnato a comprare la Fiat nel caso il Lingotto lo decidesse, versò anche 1,55 miliardi di euro pur di non accollarsi i giganteschi debiti della casa automobilistica torinese. Molti, a quel tempo, si chiedevano quando sarebbero arrivati i nuovi modelli. Furono tre lunghi anni, al termine dei quali nacque la nuova Cinquecento, riproposizione postmoderna del capolavoro dell’ingegner Dante Giacosa. Il successo fu tale che il gruppo tornò in utile.

Nel 2009 ecco il secondo grande capolavoro di Marchionne: l’accordo con la Chrysler, malandata casa automobilistica di Detroit, di proprietà del Tesoro statunitense e del governo canadese, oggi controllata dal gruppo del Lingotto. È in quest’occasione che emerse la visione di Marchionne, deciso a gestire la globalizzazione e non a subirla, convinto che l’unico modo per portare fuori dalle secche la Fiat fosse una grande «merger» capace di ottimizzare i costi enormi legati alle innovazioni tecnologiche, che caratterizzano l’automotive.

Anche il nuovo modello di contrattazione, più vicino a quello delle trade unions americane, modello che porterà allo strappo con Confindustria, era stato molto controverso. I primi a firmarlo sono stati i lavoratori di Pomigliano, seguiti da Mirafiori. Nonostante la cassa integrazione gli stabilimenti italiani hanno sempre lavorato a pieno regime senza tagli occupazionali e con il rilancio di tutti gli impianti produttivi con modelli molto competitivi, come l’Alfa Romeo Stelvio.

Sergio Marchionne era un «outspoken» uno che parlava chiaro, fuori dalle liturgie manageriali. L’ex segretario Bonanni mi ha raccontato in un’intervista che tra di loro, anche nei momenti più critici della contrattazione, parlavano in dialetto abruzzese. In effetti il compito dell’erede Mike Manley è piuttosto improbo, anche se il manager 54enne è stato designato dallo stesso Marchionne e ha contribuito a rendere grande il marchio Jeep. Come ha scritto l’Economist, Manley, «dovrà calzare scarpe molto grosse». Il nuovo ceo inglese si muoverà entro le linee del piano industriale già approvato, che prevede, dopo il successo della 500 dei Suv e dei veicoli industriali (che caratterizzano gran parte del fatturato), il rilancio di Alfa e Maserati. Ma soprattutto è chiamato a incentivare gli investimenti su quello che appare il futuro di questo settore: l’auto elettrica. Su quest’ultimo punto i progetti non sono chiari. Mentre continuano a rimanere nell’ombra, pronti a lanciarsi sulla preda, i grandi investitori cinesi, dotati di liquidità e fondi inesauribili, pronti a inglobare la creatura di Marchionne, il manager dei due mondi.

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