Finanza islamica
e sacri testi

La genesi politica, ideologica e culturale della finanza islamica la ritroviamo nell’India britannica degli anni Quaranta dello scorso secolo. In quel tempo, alcuni leader, tra i quali il pakistano Abu Al Mawdudi, sostennero che la religione non dovesse essere solo un fatto privato, ma avrebbe dovuto assumere il carattere pubblico tipico dell’Islam. Vennero così coniati i termini di «politica islamica», «costituzione islamica» e «finanza islamica».

Per i padri fondatori dell’economia e della finanza islamica i sacri testi avrebbero dovuto avere l’obiettivo macroeconomico di «condurre ad uno sviluppo migliorativo della società mediante il raggiungimento di un profitto ragionevole derivante dal lavoro». Le distanze tra il sistema economico capitalistico e quello islamico sono notevoli. Per il primo, le forze del libero mercato regolano il profitto e la proprietà privata sulla base di leggi laiche create dall’uomo e soggette ai cambiamenti suggeriti dall’andamento dei mercati; per il secondo, gli editti canonici costituiscono un limite alla libertà personale in campo economico. Ne conseguono alcuni divieti che devono essere osservati e che non possono essere messi in discussione in quanto derivanti dall’osservanza della Sharia, che è legge di Stato.

Questi i divieti: il «Riba», cioè l’impossibilità di riscuotere o pagare interessi in quanto ritenuti assimilabili all’usura; il «Gharar», che riguarda la proibizione del contratto e del guadagno basati sull’incertezza; il «maysir», ovvero l’esclusione di ogni tipo di speculazione. A questi si aggiunge il divieto di investire in attività connesse alla produzione e distribuzione di alcool, armi, carni suine, gioco d’azzardo, pornografia e tabacchi. Oltre a ciò esiste l’obbligo per le persone abbienti di pagare la «zarat», una tassa religiosa di tipo patrimoniale del 2,5%, che deve essere devoluta in opere caritatevoli per aiutare i soggetti più bisognosi. Non potendo concedere prestiti ad interesse, la banca islamica effettua investimenti attraverso l’acquisizione, in misura più o meno rilevante, di quote di partecipazione in società che si attengono ai principi della Sharia.

L’investimento comporta la condivisione del rischio e, di conseguenza, l’acquisizione di un diritto alla partecipazione ai profitti realizzati dall’impresa. Più o meno quanto avviene con gli istituti occidentali del Project Financing o del Venture Capital. Nel caso del mutuo è la banca che acquista l’immobile, che cede in fitto all’inquilino fino al riscatto. Un’altra importante forma di investimento è quella realizzata attraverso l’emissione di obbligazioni, i «sukuk». A differenza delle obbligazioni convenzionali, che rappresentano la promessa di ripagare un debito, i sukuk attribuiscono la proprietà di una quota parte di un debito, di un asset, di un progetto, di un affare, di un investimento.

Dopo un lento avvio, lo sviluppo della finanza islamica si è realizzato grazie alla costituzione da parte di alcuni importanti Paesi arabi dell’Islamic Development Bank, nel Bahrain (1975). Da allora, il Pakistan (1079) è stato il primo Paese ad islamizzare tutto il sistema bancario, seguito dall’Iran (1983) e dal Sudan (1992). Un successivo notevole impulso è intervenuto all’inizio del secolo, dopo i tragici fatti dell’11 settembre, in conseguenza del notevole aumento del prezzo del petrolio.

Da allora, è successo anche che molte famiglie medio-orientali stabilitesi in Occidente hanno iniziato il rimpatrio dei propri risparmi detenuti in dollari o in altre valute per timori di congelamenti, dirottandoli verso banche o istituzioni islamiche. Va aggiunto ancora che, a seguito della crisi del 2008/ 2013, per le conseguenze disastrose prodotte dalla finanza speculativa, molti operatori occidentali si sono rivolti agli investimenti proposti dalla finanza islamica, i cui asset sono cresciuti negli ultimi anni ad un ritmo medio del 25% annuo. Ciò è stato reso possibile dall’operatività di 350 grandi banche totalmente islamiche; di 250 fondi di investimento; di più di cento emittenti privati o pubblici di titoli islamici.

Di grande rilievo è che alcuni Paesi europei stiano tentando di integrare i loro immigrati islamici, provenienti da zone colpite da guerre o dal terrorismo, attraverso «l’inclusione finanziaria», resa possibile dall’apertura in molte banche di sportelli islamici. Un segnale importante in questa direzione è che nell’ottobre del 2013 si sia tenuto a Londra, per la prima volta nel mondo occidentale, il «World Islamic Economic Forum». In quella occasione il premier Camerum, intervenendo nel dibattito, ha espresso il desiderio che Londra possa diventare al pari di Dubay e Kuala Lampur, una delle più grandi piazze finanziarie islamiche. Che la finanza islamica possa avere uno sviluppo sempre più rilevante nel mondo occidentale è abbastanza prevedibile. Fa riflettere, tuttavia, che questo sviluppo possa avere come autorevole promotore un Paese che, insieme agli Usa, si è particolarmente distinto nella produzione di finanza speculativa.

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