Generazione voucher
Italia che non decolla

Non è certo il ritratto di un’Italia smagliante, di un’Italia smart, giovane e dinamica, quello offerto dall’ultimo rapporto annuale dell’Istat. Non dipende solo dai dati economici: la crescita debole, debolissima, l’andamento dei prezzi ancora molto basso, ai limiti della deflazione, l’occupazione che non aumenta ma nemmeno diminuisce. Il problema riguarda soprattutto i giovani – ovvero il futuro del Paese – e i rapporti tra le generazioni. È finito l’effetto sgravi fiscali e i giovani, i nuovi proletari senza prole di questo disastrato Paese tornano nel limbo dei contratti a termine o dei lavoretti.

Sono i voucher, cresciuti del 75 per cento, il nuovo simbolo di un’Italia in affanno. Generazione voucher, potremmo chiamarla. Un ragazzo su tre tra i 15 e i 35 anni è «sovra istruito», vale a dire troppo qualificato per il lavoro che svolge: magari ha una laurea ma fa spesso lavori manuali, quando gli va bene (cameriere, barista, cuoco, addetto personale, parrucchiere, estetista), sogna il posto fisso ma è costretto al regime part time, ha tempo libero che vorrebbe tanto fosse occupato da una professione.

Il lavoro temporaneo - sottolinea l’Istat - è diffuso soprattutto tra i giovani: ha un lavoro a termine un ragazzo su 4 contro il 4,2 per cento di chi ha 55-64 anni. Un Paese sempre più di sommersi e salvati, dove il discrimine, il fossato che divide, la linea di confine tra benessere e malessere, non è la capacità, l’istruzione, lo spirito di iniziativa o di impresa, ma banalmente l’età anagrafica. Quanto alle generazioni più anziane, la buona notizia è che sono più in forma rispetto alle generazioni precedenti grazie all’istruzione, al benessere economico, al trattamento sanitario, al progresso medico. Infine le generazioni dei «baby boomer», di coloro che sono nati dal 1946 al 1965, si affacciano alla soglia dell’età anziana in condizioni di salute decisamente migliori, «con quote più basse sia di persone affette da limitazioni funzionali sia di chi dichiara di stare male». Per loro si parla di «invecchiamento attivo», cioè di partecipazione alla vita sociale, economica, culturale e civile. Da un decennio, o forse due, è nata una professione nuova, quella del nonno, indispensabile pilastro sociale: l’affidamento dei nipoti fino a 13 anni li coinvolge nell’86,9 per cento dei casi. Non è solo un piacere. È diventato un vero e proprio lavoro. Altrimenti i figli come farebbero? Il nonno fa da supplenza a un Welfare che viene sempre meno: andate a vedere la lista d’attesa e le rette nei nidi e negli asili e capirete perché i nonni sono una mano santa.

Dell’inverno demografico abbiamo parlato infinite volte: l’Italia invecchia e diminuisce di numero, gli over 65 sono 161 ogni cento giovani. Siamo il Paese più vecchio della Terra dopo il Giappone, tallonati dai tedeschi. Ci sposiamo sempre più tardi (a 31 anni per le donne), e non è solo pigrizia, ma difficoltà a costruirsi una famiglia per la mancanza di redditi adeguati. La famiglia tradizionale, quella che ancora si vede nelle pubblicità, padre, madre e due figli, rappresenta meno di un terzo dei nuclei, mentre le nuove forme di famiglie sono più che raddoppiate: i single non vedovi sono l’otto per cento, mentre le libere unioni superano il milione. Da questo ritratto emergono le priorità di un Paese anziano e acciaccato, che fa fatica a riprendersi: la crescita economica, il lavoro, il riequilibrio delle pensioni attraverso un patto tra generazioni, la sanità, il Welfare, le politiche familiari, visto che il nostro Stato è a misura di single più che di famiglia. Altrimenti, che futuro può avere un Paese dove i figli stanno peggio dei padri?

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