Gentiloni, il calmo
nel Paese del rancore

Entrato in punta di piedi a Palazzo Chigi, spinto da Renzi, Paolo Gentiloni ha vissuto un anno sull’ottovolante, come dicono lo stesso premier e la cronaca di questi giorni: dall’infinita vicenda Boschi-Etruria alla discussa legge sul fine vita, dalla legge di bilancio al prossimo invio in Niger di soldati italiani. Ma Paolo il calmo riesce a ritagliarsi un ruolo d’equilibrio nel giusto mezzo. Giocare oltre misura sui risvolti di una personalità dal consenso trasversale per la sua capacità di farsi concavo e convesso può condurre alla banalità e scolorire un carattere che non ha bisogno di farsi prendere sul serio.

Tuttavia questo stile sobrio s’impone perché rassicurante, al di là dei meriti e dei limiti del governo. E dice qualcosa di una certa Italia invisibile e silenziosa che sta alla stanga e che fa quel che deve fare. Paradosso vuole che l’appeal del premier aumenti insieme ai sondaggi che danno in crescendo i grillini e in un Paese che il Censis descrive rancoroso. Come se tentato l’azzardo ci si ritraesse, mettendosi al riparo: quasi un’uscita strategica. In politica molto dipende dalle circostanze e Gentiloni è riuscito a estrarre il massimo, o quasi, da una situazione che prometteva di essere soltanto avara. Talvolta capita, non c’è nulla di più duraturo del provvisorio. Del provvisorio sicuro. Non sappiamo come si comporterebbe in una fase, per così dire, agonistica.

Accontentiamoci di quello che s’è visto: un viaggio contromano rispetto all’immaginario collettivo in anni ruvidi e di emozioni dure. Un ripristino della normalità e del galateo, un po’ vintage e un po’ postmoderno, tale da apparire anomalo rispetto allo spirito del tempo. Il suo esecutivo doveva essere una parentesi di decantazione, una specie di tregua: ha cercato di essere questo, ma in prospettiva potrebbe essere qualcosa di più. Se non altro perché, seguendo la copertura di Mattarella, preservare il governo Gentiloni significa lasciare all’Italia un esecutivo nel pieno delle sue funzioni, e non sfiduciato, almeno sino all’insediamento del nuovo Parlamento quando comunque dovrà dimettersi. Come è stato scritto da altri, Gentiloni resta la soluzione più logica sotto il profilo istituzionale in quanto l’unica possibile. Corteggiamenti a destra e a manca nei suoi confronti fanno parte del rito elettorale, della fase in cui ci si annusa per vedere l’effetto che fa e per ricamare sulle ipotetiche larghe intese. Tuttavia l’ex precario, oggi vissuto come un civil servant, potrebbe rivelarsi una risorsa e non esattamente una semplice riserva di lusso: se ne riparlerà dopo il voto di marzo, perché potrebbe aprirsi una stagione di non governo, in stile Spagna di ieri o Germania di oggi, comunque una fase di possibile instabilità. Entrato in circolo dopo l’esperienza da ministro degli Esteri e in seguito all’infarto del referendum costituzionale, Gentiloni, con il suo basso profilo, ha interpretato un renzismo sfebbrato e dialogante, trasformandolo in «gentilonismo». Senza tradire l’amico Renzi, ma garantendosi margini di autonomia: lo s’è visto quando, protetto dal presidente della Repubblica, ha confermato Visco alla guida di Bankitalia, un passaggio d’urto che poteva essere dirompente con l’ex ciclone Matteo. L’azione del governo è, come sempre, fra luci e ombre, tuttavia è sulla continuità di una legislatura riformista e anche per questo sottoposta ad una certa impopolarità.

La domanda è se l’Italia sia più stabile e più forte. Gentiloni ritiene di sì, anche perché questo Paese, dato sempre sul Titanic, è uscito dalla crisi. Resta da ricucire il legame sociale e da correggere il tiro sulla redistribuzione dei dividendi della ripresa per dare un senso di giustizia: per questo motivo serve la normalità, la forza tranquilla di leader inclusivi.

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