Gli alberi di castagno
al cimitero di Pontida

Gli alberi di castagno ci sono ancora sopra il cimitero di Pontida. È il cimitero dei miei «vecchi». Sono sepolti papà e mamma, nonni, zii, cugini, parenti vari, per rami di cui s’è perso il conto, da un ceppo familiare da secoli radicato nella valle. I castagni una volta erano come una barriera compatta, sopra la quale spuntavano alcuni grossi esemplari. Erano i padri di tutti gli altri lì attorno, centenari, con la grande massa di rami e di foglie che incuteva rispetto. Il giorno dei Morti, se si alzava un po’ di vento le loro foglie arrivavano fin sulle tombe. La nonna diceva che sotto i castagni del Canto i morti duravano più a lungo. E per noi bambini bastava: tutt’al più pensavamo che era proprio da fortunati vivere a Pontida. Nei rari ritorni, dopo la sosta nella piazza davanti alla basilica è consuetudine avviarsi per la strada in leggera salita che va sull’altro versante della valle. Come tutte le strade del paese, un tempo non era asfaltata: un velo di ghiaietto e di polvere copriva il fondo e nei mesi estivi ne usciva imbiancata la fila scura di cipressi che, rustici e solitari, indicavano la via del cimitero.

Proprio a questa altezza, incassati tra due ripide scarpate che formavano come una grande V, scorrevano i binari della ferrovia Bergamo-Lecco per scomparire in galleria (ora, stravolgendo luogo e ambiente, hanno coperto tutto: volevano fare un parcheggio) sotto il dosso dal quale la basilica domina la valle. Quando seguivamo gli adulti al cimitero, noi bambini ce ne stavamo lì ad aspettare i treni. Se venivano da Cisano si sentiva in lontananza la locomotiva che ritmava con i suoi sbuffi la lunga salita. E tutti correvamo a schierarci lungo la strada nel punto dove il treno entrava in galleria.

C’era un coro di strilli quando la nuvola di fumo, schiacciata sotto la volta, si sfogava verso l’alto avvolgendo quelli che si erano fatti più vicini al parapetto per guardare. Prima avevamo imitato lo sbuffare della locomotiva sotto sforzo scuotendo aritmicamente la testa. La macchina sembrava ansimare: «So’ stof-so’ strach». Faceva: «Sono stufo-sono stanco. Sono stufo-Sono stanco…»; e via via che si avvicinava all’imbocco della galleria e aumentava la pendenza, il ritmo del suo «So’ stof-so’ strach» diventava più lento e pesante. Il macchinista se ne stava appoggiato allo sportello e guardava verso gli smilzi bambinetti in pantaloncini corti e zoccoli, beati di poter accompagnare con il loro saluto il treno, sul quale pochi di loro erano mai riusciti a salire.

Il cimitero è molto cambiato. Si è ingrandito, hanno aggiunto colombari, e tutto attorno al muro di cinta c’è una fila di cappelle in uno stile che si incontra ovunque. Ma sono cambiate soprattutto le sepolture a terra. Una volta le tombe di marmo e i modesti monumenti si allineavano ai lati del vialetto principale; le altre tombe in posizione arretrata, erano indicate da una croce di ferro o da una ancor più povera in pietra o cemento. Adesso c’è marmo lucido e lavorato ovunque: bronzo, ottone, cristallo, sculture, elementi architettonici fanno a gara per rendere più ricco, e ostentato, il ricordo.

La consuetudine mi ferma davanti a tombe logorate dal tempo, dove pregava la nonna: c’erano sepolti parenti o qualche conoscente. Ma ogni anno, adesso, c’è qualcosa di meno nella memoria. Sul lato destro del viale rallentavamo intimiditi dalla statua in marmo di un bambino in grandezza naturale, alto quanto noi. Siamo cresciuti e invecchiati, ma per lui gli anni non passano: i capelli sofficemente composti, i pantaloncini corti, la giacchetta ben indossata. L’abitino della Prima Comunione. Il modello ideale di un bambino di settant’anni fa e più. Stavamo a fissarlo, mentre la nonna raccontava ancora una volta.

A quei tempi il traffico, molto modesto, attraversava tutto il paese passando per la Contrada. C’erano carri e carretti d’ogni tipo e con i carichi più diversi. Ma già incominciavano a comparire i veicoli a motore e si facevano sempre più numerosi. Oggi un bambino sa quasi per istinto quali siano i pericoli della strada. Invece quel giorno lui, il bambino della statua, uscì di corsa da un portone: stava arrivando un camion. La mamma fu la prima ad accorrere. Raccolse il corpicino in una cesta e lo portò fino a casa. Di tutto lo strazio dei genitori è rimasto quel monumento che proietta fino a noi la memoria di un domestico «Spoon river» che non avrà mai nessuno che lo renderà celebre.

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