Gli operai
dell’undicesima ora

Periodo di prime comunioni e di cresime, questo. È convinzione radicata nella tradizione cristiana che dal mistero della Pasqua «derivano» i sacramenti. «Forze che escono dal corpo di Cristo, sempre vivo e vivificante, azioni dello Spirito Santo operante nel suo corpo che è la Chiesa, i sacramenti sono i «capolavori di Dio nella Nuova ed eterna Alleanza». Così il «Catechismo della Chiesa cattolica». Belle, bellissime parole.

Ma quelle belle, bellissime parole devono fare i conti, in queste settimane, con la realtà delle comunità cristiane. Se si parla con preti e catechisti, si sente serpeggiare una lamentela, che non si può, non si deve dire ad alta voce. Grosso modo la si può sintetizzare così. Quando si tratta di preparare una festa comunitaria, per esempio delle prime comunioni, si devono coinvolgere le famiglie. Preti e catechisti si trovano con i genitori, si creano comitati, si discute sul come imbastire l’evento. È allora che viene fuori il problema. «Il problema, mi dice un prete amico, non sono i bambini, ma i genitori. E, tra i genitori, i più problematici sono quelli che non si vedono mai». Sì, perché, in occasione delle prime comunioni, anche i genitori estranei alla vita della comunità, si fanno vivi. Anzi, proprio perché si mettono in gioco in quell’occasione, non gli sembra vero di far capire che loro, anche se non corrono in chiesa tutte le domeniche, quando ci sono, ci sono. E buttano sul tavolo i loro pareri, duramente. Si fa il corteo per il paese, con la banda, come si è sempre fatto? Assolutamente no. Si fa portare un giglio bianco ai bambini, come segno della loro partecipazione? Ridicolo… Molte volte questi «operai dell’undicesima ora», si comportano come se fossero quelli della prima. Preti e catechisti, a quel punto, non sanno cosa fare.

Piccolo problema, questo, ma spia di una situazione complessa. Una parrocchia è comunità di gente che crede nel vangelo. E questo comunità fa battesimi, messe, comunioni. Ma fa battesimi e messe perché è comunità, gente cioè che si trova «tenuta insieme» dalla medesima fede. Quando la tela di fondo della fede non c’è, o è come se non ci fosse, la Chiesa diventa un’agenzia di riti religiosi. Chi si rivolge a lei lo fa con l’animo del cliente che chiede qualcosa. E, proprio perché cliente, pone la condizione che non può essere messa in discussione: che ciò che è richiesto corrisponda al gusto del richiedente. Il cliente ha sempre ragione, infatti.

Avviene nelle prime comunioni, ma non solo. Tutti i preti possono raccontare di aver ricevuto ordini da parte dei familiari di un defunto sul che cosa dire all’omelia di un funerale. Avviene nei matrimoni dove lo sfarzo e il protagonismo degli sposi talvolta soffoca miseramente il sacramento (certo, non tutti i funerali e i matrimoni sono così, per fortuna).

In questi casi, chi si sente responsabile di una comunità – preti, certo, ma non solo: collaboratori, catechisti… – si trova in un bel dilemma. Se fa ciò che gli chiedono, la Chiesa è un po’ meno Chiesa: è, appunto, il negozio dove si vendono bei funerali, bei matrimoni, belle prime comunioni. Se impone ciò che i clienti non chiedono non ottiene nulla, anzi, ottiene che il cliente maltrattato diventi sempre meno cliente.

Ma allora esiste una soluzione? Probabilmente no. Ma forse è meglio che non esista. O forse la soluzione sta arrivando da sé. I clienti si allontanano non perché insoddisfatti, ma semplicemente perché il negozio non interessa più. La comunità cristiana si sta assottigliando. Si ha però la sensazione che, chi resta, resta perché gli piace restare. La Chiesa non si limita a dimagrire, ma cambia perché dimagrisce.

Si deve sperare che, in tempi futuri, probabilmente non lontanissimi, le discussioni su come fare le prime comunioni rispondano soltanto a una domanda semplice semplice: cosa mettere in pista per far gustare ai bambini l’evento come un’impareggiabile festa che un impareggiabile amico gli ha preparato? Questo è l’unico problema. «E tutto il resto è letteratura».

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