Hong Kong, cosa c’è
dietro la protesta

Le proteste che da giorni sconvolgono Hong Kong, e che sono le più massicce da quelle del Movimento degli Ombrelli che nel 2014 si batteva per la trasparenza delle procedure elettorali, hanno una duplice dimensione che non è sempre facile da decifrare. Da un lato c’è il contrasto che oppone il fiume di manifestanti raccolti dal Civil human rights front (Chrf) alla governatrice Carrie Lam, grande sponsor della proposta di Legge 2019 che, in estrema sintesi, propone di regolamentare i rapporti di estradizione con i Paesi con cui Hong Kong non ha un accordo.

Tutto è nato per il caso di un certo Chang Tong-kai che si è rifugiato a Hong Kong dopo aver assassinato, a Taiwan, la fidanzata che aspettava un bambino. La Legge 2019, però, permetterebbe anche le estradizioni verso la Cina continentale e molti vedono il provvedimento come un’ulteriore ingerenza di Pechino nella vita sociale e politica di Hong Kong. L’ex colonia inglese, pur essendo tornata a far parte della Cina nel 1997, è una «regione amministrativa speciale» ed è di fatto autonoma, con la sola eccezione delle relazioni estere e della difesa. La magistratura di Hong Kong, in particolare, è del tutto autonoma rispetto al sistema giudiziario della Cina continentale e opera sulla base del Common Law di ispirazione britannica.

Com’è ovvio, la Cina ha molti modi per influire sulla politica di Hong Kong, per esempio facendo eleggere politici sensibili ai suoi interessi, e non manca di sfruttarli. La popolazione, però, è gelosa del proprio spazio, che è anche un vettore di prosperità economica, e lo difende con grinta, come le mobilitazioni di questi anni dimostrano. Per ora la protesta ha vinto, la Legge 2019 è stata messa in soffitta e la governatrice Carrie Lam, giudicata prona alla Cina, deve confrontarsi con una pressante richiesta popolare di dimissioni.

Ed è proprio qui che s’inserisce la seconda dimensione del problema, quella internazionale. L’amministrazione Usa ha subito espresso la propria vicinanza alle ragioni della protesta, parlando di autonomia, libertà e democrazia. Il governo cinese ha replicato piuttosto duramente, chiedendo alla Casa Bianca di rinunciare a qualunque ingerenza nella situazione di Hong Kong.

Nella realtà, già prima delle proteste di piazza Hong Kong era diventata un ostaggio dello scontro globale, commerciale e politico, che oppone gli Usa alla Cina. Noi conosciamo bene la guerra dei dazi tra le due potenze, le accuse americane di spionaggio alla Huawei cinese, la strategia di Pechino della Nuova Via della Seta e le contromosse di Washington. Una delle mosse di questa partita l’ha compiuta il Congresso americano dove è stata presentata una proposta di legge per far sì che ogni anno il Dipartimento di Stato verifichi il livello di autonomia di Hong Kong (o, se vogliamo, il livello di intromissione della Cina), per decidere se rinnovare gli accordi commerciali speciali che sono in vigore tra gli Usa e la regione.

Qual è il rapporto tra i due piani? I giovani manifestanti di Hong Kong sono ispirati dall’estero, come fanno intendere alcune fonti cinesi? Oppure è la Cina rampante di Xi Jinping che vuole soffocare ogni forma di autonomia e cancellare il motto «una Cina, due sistemi» che pure le ha portato tanti vantaggi? La sorte della Legge 2019, sospesa ma non abolita come chiedevano i manifestanti, ci dirà qualcosa in proposito. Certo è che a Hong Kong c’è un popolo, c’è un’opinione pubblica e c’è un palcoscenico ideale per parlare al mondo. Fattori di cui anche la sterminata Cina continentale, soprattutto ora che ha ambizioni di leadership globale, non può non tener conto.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA