I 5 Stelle corrono
la prova affidabilità

Non c’è rilevazione demoscopica che non registri il primato nei favori popolari del Movimento 5 Stelle. L’indicazione risulta ancor più impegnativa se si considera che i Pentastellati, sempre stando ai sondaggi, riuscirebbero a spuntarla su qualsiasi altro concorrente nell’eventuale ballottaggio, previsto dall’Italicum nel caso che nessuna lista riesca a superare nella prima votazione la soglia del 40%. Alla luce di queste risultanze, considerato che il centrodestra è tuttora in grande affanno e che Renzi non avrà prevedibilmente nei prossimi mesi una navigazione tranquilla, dobbiamo concludere che Di Maio sarà il nostro prossimo presidente del Consiglio?

L’esperienza ci invita alla prudenza. Sbagliano persino gli exit polls, ossia le rilevazioni condotte a urne chiuse. Figuriamoci le previsioni a distanza di due anni dalla convocazione dei comizi. A sconsigliare conclusioni affrettate non c’è, comunque, solo l’ovvia considerazione che in ventiquattro mesi può succedere di tutto. C’è anche da tener presente che l’elettorato cambia risposta a seconda dei quesiti che gli si sottopongono. Un conto è sollecitarlo a esprimere le proprie simpatie, un altro porlo di fronte al quesito di chi debba intestarsi la guida della nazione. La Dc fletteva spesso alle amministrative, ma alle politiche puntualmente si riprendeva. Di fronte all’eventualità che il governo finisse nelle mani di un’opposizione antisistema anche i più scontenti della sua guida, magari «turandosi il naso» alla Montanelli, decidevano immancabilmente di tornare a rifugiarsi sotto le sue ali protettive.

La vera domanda da porsi, a questo punto, è perciò quale sia il grado di affidabilità del M5S come forza di governo. Difficile non convenire che stia qui il suo vero punctum dolens. Come ogni forza di protesta, si trova a suo agio nelle piazze (anche in quelle informatiche). Accusa invece tutta la sua debolezza nelle sedi istituzionali, specie quando è chiamato ad assumere responsabilità di comando. Da Parma a Livorno, da Gela a Quarto, non c’è amministrazione grillina che non sia andata a sbattere la testa contro il muro della realtà, un muro più duro di tutti proclami elettorali. In un Comune, l’inceneritore, in un altro la raccolta dei rifiuti, in un altro ancora le trivellazioni petrolifere oppure l’ambiente camorristico mettono il movimento in rotta di collisione con le spavalde promesse di un’impossibile democrazia partecipativa via web e di una gestione irrispettosa dei vincoli stringenti di bilancio, quando non con il vanto della propria inattaccabilità morale.

C’è poi un altro problema assai spinoso. Per quanto il movimento si stia faticosamente dotando di un gruppo di comando più largo del duo Grillo-Casaleggio, resta inchiodato a una disciplina da caserma che prevede «obbedienza pronta, cieca, assoluta» di togliattiana memoria, col risultato di rendere eretico chi osa anche solo adottare un comportamento non autorizzato (per esempio, apparire in video) o esprimere un parere fuori linea (come sull’opportunità di uscire dall’aula in occasione di un voto di fiducia al governo). Siamo già a 37 espulsi, per limitarci ai gruppi parlamentari. Infine, si possono condividere tutte le intemerate contro la Casta ma tra l’essere contrari al professionismo politico e il pensare che l’essere «cittadino» basti per essere un buon sindaco o ministro, ci passa una bella differenza.

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