I 5 Stelle e l’ossimoro
del populismo moderato

Nell’ansiosa attesa di sapere chi sarà mai il candidato premier dei 5Stelle (deciderà la «rete» e dunque chissà…), può essere utile una riflessione sul possibile futuro tasso di moderato buon senso e persino di europeismo di un movimento che, nato 10 anni fa all’insegna delle più feroci invettive, oggi si propone di governare da solo la settima potenza economica mondiale. Il tema scaturisce da un certo credito dato alle flautate parole di Gigi Di Maio, in gara buonista con Salvini, al recente vertice della finanza di Cernobbio.

Pensiamo in realtà che il populismo o è estremo o non è, soprattutto in questa fase, per un po’ ancora nascente, in cui non è stato messo alla prova, se non a Roma con i noti risultati. Al massimo si può fare un po’ di commedia all’italiana, prendendosi gioco di un uditorio sussiegoso che finge curiosità per dissimulare un’apertura di credito – non si sa mai – ai futuri vincitori. Il populismo moderato, insomma, è un ossimoro, e chi si è affermato alzando la voce è condannato se mai a spararle più grosse, specie se si sente minacciato dalla concorrenza leghista su argomenti, tipo l’immigrazione, in cui arriva oggettivamente in ritardo a cavalcare il disagio.

Il partito della Casaleggio spa ha un grande vantaggio che durerà ancora un po’, e cioè di non avere un passato e di poter cancellare persino la distinzione tra destra e sinistra. Nel Pantheon a 5Stelle ci sono sia Almirante sia Berlinguer. Può capitalizzare il declino di idee e valori di un’epoca che ha perso – ed è il vero male – punti di riferimento, pescando perciò indifferentemente nel repertorio della vecchia destra e della vecchia sinistra quello che emotivamente può ancora funzionare.

Il mondo ha sperato che il leader di questa nuova era, Donald Trump, rinnegasse al governo almeno i più esagerati proclami della campagna elettorale, ma non è andata così. Siamo di fronte al paradosso che sembra perversa una cosa virtuosa che i partiti tradizionali non facevano, e cioè rispettare le promesse elettorali. Sarebbe meglio per tutti, anche per Trump, che il presidente si dimenticasse i suoi roboanti comizi. Ma c’è una differenza tra i partiti tradizionali e quelli populisti. I primi hanno storicamente disatteso le promesse elettorali, peraltro quasi sempre generiche (lotta all’evasione fiscale, ad esempio), mentre i secondi sono molto più legati ossessivamente ai proclami a cui hanno sinceramente creduto e che sono tutt’altro che generici (il muro del Messico, ad esempio), perché sono la ragione stessa del loro successo. Il populismo non può insomma rinnegare la sua radice esistenziale come metodo di soluzione semplice, o semplicistica, di questioni complesse. Se cadono alcuni capisaldi, che senso ha l’esistenza di un movimento di protesta? Un movimento cioè che cerca «solo» il consenso, rinviando le cose da fare a un programma che tutt’oggi si basa su un’unica differenza vera, e cioè il reddito di cittadinanza, che o è assistenza universale a costi insostenibili o è normale e mirato soccorso sociale, già largamente adottato.

I romani hanno eletto la Raggi solo per la sua diversità, ed è contraddittorio che oggi la si giustifichi perché ha avuto poco tempo per rimediare i guai altrui. Questo è un normale argomento a sostegno dell’alternanza tra coalizioni classiche. Quello a 5Stelle doveva essere invece il miracolo delle soluzioni semplici (rifare i tombini per evitare le alluvioni) che gli altri non adottavano, presi dai loro complotti e dalla loro corruzione.

Il no euro e il no Europa - identificata tout court con i poteri forti - sono dunque colonne del progetto, che poggia appunto sul principio del complotto, dai vaccini alle migrazioni bibliche. Se M5S dovesse accettare l’esistenza anche parzialmente benefica dell’euro, oltretutto, dovrebbe tenersi tutto il corollario che ne consegue: austerità, spesa pubblica tagliata, politiche monetarie e fiscali, bail in e fiscal compact, unione bancaria e acquisizioni di aziende italiane. Intendiamoci, tutte cose scomode, spesso spiacevoli, che se fossero dipese dalla democrazia diretta, forse non si sarebbero mai fatte. E infatti le scelte di fondo legate alle politiche europee e in generale transatlantiche, come la Nato (non a caso ora snobbata da Donald Trump), si debbono alla visione di leadership che - con tanti limiti e cadute - erano non dei poteri forti ma delle minoranze con idee forti (da De Gasperi a Kohl). Insomma, o questi movimenti restano coerenti a se stessi, in una specie di eterna coazione a ripetere, e può esaurirli solo il rapporto tra le altissime attese proposte e le deludenti prestazioni rese, oppure non possono attenuare la dinamica che li ha fatti nascere e che li condanna a proseguire così, anzi ad alzare perennemente la posta. Ma non si possono ripetere le stesse cose all’infinito, per cui, a Cernobbio, Di Maio non potrà più tornare l’anno prossimo a dire cose dorotee sull’euro, ma potrà tornarci solo da Presidente del Consiglio, e solo molto presto, prima cioè di essere messo alla dura prova dei fatti di governo. Ma almeno questo non dipenderà da lui soltanto.

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