I grandi della Terra
appesi a Trump

Gli incontri politici internazionali, come il G20 che si è svolto ad Amburgo con Angela Merkel come padrona di casa, hanno pian piano perso la loro funzione programmatica per diventare un grande specchio dell’attualità. L’unico tratto fisso sono i disordini di piazza, perché cogliere i massimi leader politici del mondo concentrati in uno stesso luogo e potersi offrire a migliaia di telecamere è un’opportunità che nessun movimento antagonista vuole perdere. Anche in Germania, quindi, si è ripetuto il rituale degli scontri, dei feriti (centinaia, sia tra i contestatori sia tra i poliziotti), degli arresti, delle vetrine mandate in frantumi. Per il resto la politica segue l’onda, perché il vento robusto dei nazionalismi e degli interessi individuali, soprattutto in anni di crisi, gonfie le vele un po’ dappertutto.

E appunto d’attualità è stato il tema del summit in terra tedesca, tutto concentrato su una domanda non esplicita ma non per questo meno pressante: dove vogliono andare gli Usa? Che cosa vogliono fare (o disfare) per il commercio internazionale, il clima, il terrorismo, il rapporto con la Russia, curioso convitato escluso dal G7 ma incluso nel G20, come un bambino terribile che non sta a tavola con i grandi ma tuttavia può strappare la tovaglia e rovesciare il tavolo?

Alla domanda dovrebbe rispondere la Casa Bianca. Ma là dentro, da qualche mese, vive e lavora Donald Trump, più sgusciante e sinuoso di un’anguilla. Poche ore prima di sbarcare ad Amburgo, il presidente Usa, in visita a Varsavia, aveva detto che: la Russia ha influenzato l’elezione presidenziale che lo ha visto vincitore «ma lo hanno fatto anche altri Paesi»; la Russia ha «comportamenti aggressivi e destabilizzanti» e gli Usa studiano «insieme con la Polonia il modo di reagire»; gli Usa «sono pronti a stabilire con la Russia meccanismi comuni per garantire la stabilità in Siria, comprese le no fly zone». E appena arrivato in Germania aveva detto di non vedere l’ora di incontrare Vladimir Putin. E quindi che si fa?

La musica non cambia molto sugli altri temi. Il terrorismo, per esempio. Il G20 ha prodotto una dichiarazione che sta tra il fantastico e il grottesco. Questa: «Noi capi di stato e di governo del G20 condanniamo espressamente gli attacchi terroristici su scala mondiale, e siamo fermamente uniti nella battaglia al terrorismo e al suo finanziamento. Per il finanziamento del terrorismo non deve esserci alcun luogo sicuro al mondo». Firmato da un gran numero di Paesi che non si fanno problemi a trattare con Arabia Saudita e Qatar, per dire, che notoriamente finanziano il peggiore radicalismo islamico e ai quali gli Usa di Trump (come Canada, Francia, Regno Unito) hanno appena venduto caterve di armi, come peraltro la Russia fa con la Siria di Bashar al-Assad e l’Egitto di Al-Sisi e la Cina con molti altri.

Quando si è passati a parlare di commercio, tutti si sono espressi contro il protezionismo e le misure tese a proteggere i mercati nazionali. Anche gli europei, che hanno da poco adottato una politica di dazi contro l’acciaio cinese (uno dei 41 provvedimenti analoghi decisi dalla Ue, 18 dei quali contro la Cina), e ovviamente anche la Cina, che ha lungamente praticato una politica di artificiale ribasso dei prezzi. E mentre ne parlavano tutti guardavano Trump, il leader di una delle economie trainanti del pianeta, che era partito per disdire tutti gli accordi commerciali, poi ci ha in parte ripensato e adesso non si sa più che cosa voglia.

Tutti appesi all’America, insomma. E l’America appesa a Trump. Nel frattempo papa Francesco recapitava a «Sua Eccellenza Dottoressa Angela Merkel» un breve ma intenso messaggio che, da solo, diceva più cose, e con più precisione, di tutti gli incontri bilaterali e le sessioni plenarie del G20. «Nei cuori e nelle menti dei governanti», scrive il Papa, «c’è bisogno di dare priorità assoluta ai poveri, ai profughi, ai sofferenti, agli sfollati e agli esclusi, senza distinzione di nazione, razza, religione o cultura, e di rigettare i conflitti armati». Non è difficile. Ma un mondo che nel 2016 ha speso 1.700 miliardi in armi (e l’Italia è il Paese dell’Europa occidentale con il maggiore incremento sull’anno precedente: più 11%) non lo vuole proprio fare.

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