I luoghi comuni
Certezza della pena

Le autocertificazioni false spopolano. Dichiarare titoli e poi non possederli val sempre il tentativo di farlo. La conferma ci viene da una sentenza siciliana di questi giorni che in appello di fatto derubrica il reato a bagatella. Due settimane di cella. Un palliativo nel paese delle pene alternative e delle carceri piene. Oppure una multa. La motivazione del giudice è lampante: «Tenuto conto del contesto in cui tale dichiarazione venne sottoscritta ….».

Il che vuol dire siccome lo fanno tutti come si fa a condannare solo gli imputati. Occorrerebbe colpire il male alla radice, ma siccome non si può, eccoci rassegnati. Poi ci si lamenta perchè la criminalità organizzata si espande. È l’assuefazione il terreno di coltura per chi esercita sopraffazione. E dall’abitudine al falso, alla truffa, all’imbroglio, al furto, all’omissione dei doveri civici, cioè da quelli che vengono derubricati a piccoli atti delinquenziali, che nasce la trasgressione seriale. Un fenomeno che si è esteso a macchia d’olio su tutto il territorio nazionale.

Gian Antonio Stella, che è uno specialista nel mettere a nudo le magagne nazionali, ci informa che 5.000 matricole all’Università Bicocca di Milano nel 2012 non pagavano la seconda rata perchè dichiarati nullatenenti. Adesso la pagano per il 90%, per il semplice motivo che sono scattate le ispezioni. L’uovo di Colombo. Se le norme si fanno rispettare, poi segue il passa parola e quindi l’autodisciplina.

«Nessuno nasce imparato» dicono al Sud. Appunto. Ci vuole il castigo per chi ruba la marmellata. Vale per i bambini e per i genitori. L’educazione è la chiave di volta. Chi va all’asilo nei Paesi del Nord Europa impara a non buttare nulla per terra. Quando torna a casa, le tasche sono piene di carte di caramelle, cicche e quant’altro, cioè del vissuto quotidiano, e la mamma provvede a fare l’inventario. Ma qui non si fa, e quindi si deve intervenire a valle. E l’unico sistema è quello della perseveranza nell’applicazione della legge.

Da questo punto di vista in Italia siamo ancora nella bolla. Chi delinque sa che nello Stato italiano, per una condanna per cosiddetti reati minori, il carcere non si fa. Ci sono gli arresti domiciliari. Così le forze dell’ordine devono trascorrere il loro tempo a verificare che il domiciliato forzoso sia effettivamente tale. Invece di andare per strada e prevenire. Il motivo è che non ci sono carceri sufficienti. Al che si potrebbe rispondere che se ne possono costruire di nuove. No, perchè fa molto da Stato di polizia.

E così, di luogo comune in luogo comune, si perpetua l’inefficienza giudiziaria italiana. La redenzione del condannato è certamente il fine della pena, bisogna però che il numero di anni di detenzione trovi esecuzione. Ma secondo l’articolo numero 48 dell’ordinamento penitenziario, dopo aver scontato metà della pena si è ammessi alla semilibertà. Significa che di giorno si va in giro a lavorare, e di notte si torna in prigione a dormire.

«Abbiamo processi troppo lunghi, che in numero eccessivo si prescrivono. Questo impedisce che la pena comminata sia scontata e ha l’anomalo effetto dell’anticipazione delle misure cautelari che sono troppe». L’ha detto nel 2012 Michele Vietti, allora vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Sono passati quattro anni, ma la legge sulla prescrizione giace ancora in Parlamento.La certezza della pena è il problema italiano. Non pene più severe e nemmeno più leggi. Applicare solo ciò che c’è. In inglese è «effectiveness» e si è imposto nel diritto internazionale. È il primo requisito per la legittimità di uno Stato.

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