I migranti annegati
l’altra barbarie

Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine. Il dibattito pubblico è acceso sui migranti che sbarcano vivi sulle coste italiane. Quelli che invece muoiono inghiottiti dal Mediterraneo sono considerati un trascurabile danno collaterale. I più cinici si spingono a dire che «se la sono cercata», affari loro insomma. Certo, chi si imbarca mette nel conto di poter perdere la vita in mare ma il desiderio di raggiungere l’Europa vince sul calcolo dei tragici rischi. Da inizio anno nel Vecchio continente sono arrivati 263 mila immigrati, cifra prossima agli approdi nello stesso arco di tempo nel 2015. Ma il numero delle vittime è aumentato drasticamente: sono state 3.100 nei primi sette mesi del 2016 a fronte delle 1.900 nell’analogo periodo dello scorso anno. Un numero impressionante, per chi ancora ha la carità di farsi impressionare.

È dagli anni Novanta del secolo scorso che il Mare Nostrum è anche un’immensa fossa comune: dal 1988 sono morte lungo le frontiere d’acqua dell’Europa almeno 27.382 persone, 4.273 soltanto nel 2015. Numeri degni di un bollettino di guerra. Ma gli sbarchi dei vivi, salvo alcuni picchi stagionali, in quel tempo non destavano grandi preoccupazioni. Avvenivano in un continente in altre condizioni politiche e sociali, non attanagliato dalla crisi economica e il Mediterraneo non era il confine con Stati in guerra, come invece lo è oggi. Il terrorismo di matrice islamica poi non ci aveva ancora toccati. Insomma, eravamo in pace.

Eppure sbarchi e decessi in mare, per chi li avesse voluti leggere in filigrana, erano già la spia di un mondo in fibrillazione. Seguendo a ritroso il percorso di quei migranti avremmo scoperto ad esempio la rete criminale dei carnefici che tratta la vita umana come merce qualsiasi, realizzando profitti degni di un’industria globale. Una rete che traffica anche droga e armi e che opera in combutta con le sigle dedite al terrorismo. Era già tutto scritto in libri ormai datati, da giornalisti che indagavano i territori a sud di Lampedusa. Oggi scopriamo che l’Isis è socio nella Spa avente per ragione sociale il traffico dei migranti. Ricordare questo ritardo di nozioni non è un esercizio accademico, ma la denuncia di uno scarto pericoloso: lo Stato islamico ci conosce molto meglio rispetto a quanto noi sappiamo della sua ideologia e del suo affarismo. Se fosse un ritardo solo delle opinioni pubbliche, passi. Ma lo è anche delle classi dirigenti e di quella politica in particolare. Da anni esponenti di forze presenti nel nostro Parlamento sono dediti con zelo alla criminalizzazione dei migranti come categoria, cioè delle vittime della tratta, e alla delegittimazione di chi li soccorre in mare e di chi li accoglie (dare un tetto e un pasto a chi arriva stremato da mesi, quando non da anni di viaggio dai Paesi d’origine è atto necessario per chi ancora si voglia fregiare dell’appartenenza a una civiltà) ritenendoli addirittura corresponsabili dei flussi: il reato sarebbe attrarre migranti, come il miele per le api. Tanto zelo persecutorio meriterebbero invece i carnefici: ma è un ribaltamento di prospettiva che non rende in termini elettorali, almeno nell’immediato.

La foto-simbolo del cadavere di Aylan, bambino siriano in fuga dalla guerra, riverso sulla spiaggia turca di Bodrum, nel settembre scorso generò in Europa un moto di emozione. Aveva solo tre anni e con lui perirono il fratellino di cinque anni, Galip, e la madre Rehan. Quel moto dell’opinione pubblica mosse gli «statisti» europei al grido «mai più». Da allora centinaia di piccoli hanno perso la vita nel Mediterraneo. Ma abitiamo la civiltà dell’immagine e i numeri, seppur impressionanti, se non corredati da foto-simbolo non ci smuovono. Il «mai più» ha prodotto riunioni governative a Bruxelles e qualche decisione: il rafforzamento della presenza militare nel Mediterraneo e la proposta di una Guardia costiera continentale, che ha per presupposto il riconoscimento del Mare Nostrum come frontiera dell’Europa, e non solo di Italia e Grecia, i due Paesi Ue più esposti agli sbarchi. La politica dell’ognuno per sé ha invece generato questo capolavoro: la riduzione dei flussi lungo la rotta balcanica e l’accordo tra Unione Europea (leggi Angela Merkel) e Turchia ha scaricato il 99% degli arrivi sulle coste elleniche e italiane, secondo i dati dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Ma nel luglio scorso il 93% dei migranti diretti in Europa è approdato in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania. Se questa tendenza venisse confermata nei prossimi mesi, si prevede che a novembre l’Italia potrebbe superare la Grecia come numero di arrivi in termini assoluti. È l’Ue dello scaricabarile.

Nel nostro agone politico c’è chi non si fa scappare l’occasione per attribuire la responsabilità sul premier Renzi e sul ministro Alfano, sopravvalutandone il ruolo e ragionando con logiche locali rispetto a un fenomeno che richiederebbe risposte di altro livello. Intanto la scoperta tardiva che anche l’Isis maneggia il traffico dei migranti verso l’Europa dovrebbe indurci almeno a guardare chi approda sulle nostre coste come vittima della stessa barbarie dello Stato islamico che semina morte e terrore in Medio Oriente, Africa e ora anche nel Vecchio continente.

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