Il copyright tutela
democrazia e lavoro

Nessun pasto è gratis, dicono gli economisti. Nel senso che ogni bene o servizio prevede dei costi e dei giusti compensi, altrimenti non è un costo o servizio che può stare sul mercato. Questo vale anche per l’informazione, che fornisce pasti in termini di notizie, di inchieste e di analisi. Non solo l’informazione, ma anche una foto, un video, un film, un libro, un motivo musicale. Dietro c’è gente che ha lavorato per produrli. Per questo dobbiamo salutare positivamente il voto del Parlamento europeo di Strasburgo, che ha votato a grande maggioranza la riforma del diritto d’autore in Rete, imponendo ai giganti americani del Web, tipo Google o Facebook, di compensare gli editori dei giornali, i produttori di musica e di cinema e qualunque altra opera frutto dell’ingegno individuale o collettivo.

Il diritto d’autore è un concetto molto importante della democrazia, della libertà e del progresso. Se non si pagano i prodotti immateriali capaci di arricchire una società, allora si finisce per indebolire chi li produce, con conseguenze gravissime per la qualità di una democrazia. Non è un caso che vi sia un filo rosso tra lo sviluppo dei social, che di tali prodotti ne hanno fatto un uso smodato, saccheggiandoli senza limite, e il populismo crescente in Europa e nel mondo. Il presidente americano Donald Trump, che ha basato la sua campagna anche sull’uso dei social, ha sempre attaccato i giornali definendoli «falliti e bugiardi».

A nulla valgono le obiezioni di chi sostiene che il voto di ieri è stato un attentato alla libertà e un via libera alla censura preventiva. Si è affermato che un diritto d’autore potrebbe portare a restrizioni in Rete. E perché mai? Di quali restrizioni stiamo parlando? Solo in virtù del fatto che si dà un costo e quindi un prezzo alle notizie e a qualunque altro prodotto creativo? È un argomento risibile. La vera censura è proibire o bruciare un libro, come in Fahrenheit o come i nazisti in Bebel Platz a Berlino, non pagare il suo editore e il suo autore, affinché questi possano sostenersi e produrre altri libri a beneficio della collettività. Proprio non si capisce perché si debba pagare un giornale in edicola e non i suoi stessi articoli prodotti dallo stesso giornale e diffusi in Rete.

Il voto di ieri, se avrà un seguito (i passaggi da compiere sono ancora molti) metterà la stampa più autorevole nelle condizioni di fare al meglio il proprio mestiere, perché l’autorevolezza ha dei costi. Uno dei problemi dell’avvento dei social, che naturalmente hanno prodotto anche molti vantaggi, è certamente l’appiattimento delle notizie, tutte accessibili, tutte uguali, tutte fruibili, dalle «fake news» prodotte da un ubriaco al bar o da un gruppo di hacker al servizio del potente di turno, fino alle inchieste giornalistiche di grande qualità, capaci di smascherare i potenti o di arrivare il più possibile vicini alla verità.

Alleati in questa campagna contro il copyright in Rete si sono ritrovati da una parte i populisti e dall’altra i grandi aggregatori, capaci, con un martellante lavoro di lobbies, di ritardare il riconoscimento di un diritto sacrosanto, quello dell’autore, dell’editore o del produttore di cultura e informazione. Un’industria che ogni anno attraverso i diritti d’autore genera oltre 500 miliardi di euro, gravemente compromessa dai metodi sleali dei giganti del Web che in virtù della loro «immaterialità» per anni non hanno pagato le tasse e ora non vorrebbero pagare i contenuti di cui si fanno portatori con i loro algoritmi. Volete un esempio di cosa serve l’Unione europea? Bene, l’altro ieri, con questo voto, Strasburgo è riuscito a darlo.

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