Il coraggio di Renzi
che taglia le imposte

Una cosa dev’essere ammessa: non è un compito facile! Non è compito facile cercare di realizzare, contemporaneamente, obiettivi così divergenti fra loro quali l’equilibrio dei conti pubblici, il mantenimento di un adeguato livello di servizi pubblici e il taglio delle imposte. Per di più in un contesto economico privo di crescita, che invece di generare nuova ricchezza piano piano erode quella esistente. Il giudizio sulle linee guida della manovra presentata dal governo non può non tener conto di questo elemento oggettivo.

E allora, l’impressione che se ne ricava a prima lettura è quella di un tentativo coraggioso che, proprio perché consapevole della situazione economica e dei vincoli di bilancio, si propone di incidere su alcuni fattori decisivi per invertire la tendenza. Anzitutto il lavoro, che pesa quasi 7 miliardi di euro (rispetto ai 30 dell’intera manovra). La scelta si è concentrata sulle imprese e, in particolare, sulla diminuzione del costo del lavoro al fine di aumentarne la competitività internazionale. Per un verso, si rinuncia all’Irap sulla componente lavoro (si ricorda che l’altra componente tassata dall’Irap è il capitale); per altro verso, si esentano le imprese dal pagamento dei contributi per ogni nuova assunzione a tempo indeterminato, per i primi tre anni (nella speranza che dopo il terzo anno la situazione economica sia migliorata e l’impresa abbia le risorse per poter autonomamente contribuire). L’obiettivo è chiaro, diminuire i costi «pubblici» per aumentare la competitività delle imprese sul mercato, e gli strumenti sono adeguati all’obiettivo.

Il secondo pilastro sono i consumi. In questo caso, la soluzione adottata è quella di rendere strutturale il bonus degli 80 euro per i possessori di redditi bassi. Si tratta di un palliativo, non della cura, ma in questo momento è tutto ciò che ci possiamo permettere. Il terzo pilastro è la riduzione della spesa pubblica. Ripeto, assumendomi il rischio di annoiare, che questa è la reale variabile indipendente, poiché in un sistema come il nostro in cui i (fortunatamente) saldi di bilancio sono rigidamente determinati dall’alto – Unione europea –, la riduzione delle imposte dipende esclusivamente dalla riduzione della spesa pubblica. Ebbene, la definizione di manovra coraggiosa ben si attaglia ai numeri indicati dal governo. La legge di stabilità 2015 prevede un taglio di 15 miliardi, cifra assolutamente significativa in tempi come questi, che non si vedeva da anni.

Ciò premesso, si deve aggiungere che molte delle misure presentate impongono una sospensione del giudizio in attesa dei dettagli attuativi, anche se ammettono qualche riflessione critica. Si dovranno valutare le modalità di recupero dell’evasione fiscale, quantificata in 3,8 miliardi di euro. Una parte di quella somma dovrebbe derivare dal rientro dei capitali esteri, provvedimento a lungo annunciato ma ancora fermo in Parlamento. Un’altra parte è affidata all’introduzione di procedure di accertamento e di riscossione più efficaci rispetto alle attuali. Questo appare, indubbiamente, un punto debole della manovra, per due ragioni. Stringere ulteriormente i controlli sulle imprese produce un effetto contrario rispetto a quello perseguito sopra con la riduzione dell’Irap. In aggiunta, la ricerca di efficienza dell’attività dell’amministrazione finanziaria richiede molto più tempo di un anno per poter dare i frutti sperati. Sul fronte dei tagli alla spesa pubblica, proprio perché numericamente significativi, si pongono legittimi dubbi sulla loro fattibilità e sostenibilità. Questo, ovviamente, è un elemento politico, ma anche comunicativo, nel senso che richiede molta attenzione sul fronte della loro giustificazione sociale. La questione più delicata, tuttavia, riguarda la loro distribuzione, sia fra i diversi settori dell’amministrazione pubblica, sia in ragione delle modalità di attuazione.

Quanto al primo profilo, pesante è il costo che sopporteranno le Regioni – 4 miliardi – e i Comuni e le Province – 2,2 miliardi –. Questo avrà conseguenze negative sia sulla sanità regionale e sui servizi di assistenza sociale prestati dai Comuni, sia sul carico fiscale locale, destinato inevitabilmente ad aumentare. Per quanto riguarda, diversamente, le modalità di attuazione si è paventato il tradizionale metodo dei «tagli lineari» pari al 3% delle spese. Questo metodo è fortemente criticabile perché tratta buoni e cattivi nello stesso modo, ovvero tratta indistintamente chi amministra bene e chi non lo fa. Un suggerimento è quello di anticipare l’utilizzo dei fabbisogni standard, che consentono di eseguire i tagli secondo criteri di maggiore giustizia. Sempre in quest’ottica s’invita il governo a por mano agli sperperi delle migliaia di società partecipate dagli enti pubblici territoriali. La spending review elaborata da Cottarelli evidenziava un potenziale risparmio fino a 3 miliardi di euro. Mostrar coraggio anche in queste direzioni avrebbe i suoi effetti!

Un ultimo appunto, già fatto. Non si parla mai di università. In questo modo passerà sotto traccia l’ennesimo taglio, dopo quelli subiti negli ultimi anni. L’investimento in ricerca universitaria, ci insegnano gli economisti, è strumento anticiclico, perché produrre conoscenza aiuta a uscire dalla crisi. Non si tratta di un appello «corporativo» ma alla creazione di bene comune.

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