Il Csm e i politici
I brutti intrecci

Tra i tre «poteri» tradizionali degli Stati di diritto (legislativo, esecutivo, giudiziario) l’equilibrio si è rivelato sempre difficile, talvolta addirittura precario. Lo vediamo - di questi tempi - in democrazie che consideriamo tra le più antiche ed affermate: il non idilliaco rapporto tra Trump e il Congresso Usa; le tormentate vicende del Regno Unito dopo la decisione della Brexit; le angustie della Francia guidata dal presidente Macron. Come insegnano politologi e sociologi la ricerca (talvolta faticosa) di bilanciamento tra i poteri - anche nei periodi di relativa stabilità politica – è per certi versi, l’eterno motore delle democrazie, che vivono di conflitti e di ricerca di equilibri sempre nuovi, sempre maggiormente aderenti alle realtà politico-sociali.

Nondimeno deve sempre esistere un argine all’indurimento dei conflitti, alla cristallizzazione delle contrapposizioni di interessi. Le dinamiche conflittuali delle democrazie non possono mai superare quelle «colonne d’Ercole» costituite dalla legalità, nella quale risiede la legittimazione stessa di qualunque democrazia.

Sotto tale profilo l’Italia costituisce un caso peculiare, non soltanto per le sue radici storiche e per il suo ordinamento interno, quanto piuttosto perché da troppo tempo vive in una situazione che potrebbe dirsi di «transizione», ma che più propriamente si può definire di stallo. Uno stallo che dura da quasi tre decenni, allorché le indagini del pool di Mani pulite scoperchiò un intreccio politico-affaristico, costruito e tenuto in piedi dalle «mazzette». In quella fase – come tutti ricordano – i magistrati, soprattutto quelli inquirenti (i pubblici ministeri) vennero elevati ad eroi; alcuni di essi ne trassero popolarità e legittimazione per operare la scalata verso carriere politico-istituzionali. Molto tempo è passato; la rilettura di quegli anni virulenti, con ricadute impressionanti sulla stabilità del sistema politico, ha portato a valutazioni meno frettolose e radicali. Ciò nonostante, è assodato che quelle indagini provocarono uno smottamento che portò alla caduta rovinosa della rappresentanza politica che aveva guidato il Paese, con alterne vicende, per quasi 40 anni.

La novità - non particolarmente esaltante - che emerge da vicende giudiziarie che hanno investito esponenti della magistratura facenti parte del Consiglio superiore della magistratura può essere sommariamente riassunta così. Coloro che erano apparsi, per un certo arco di tempo, i difensori (quasi unici) della legalità sono invischiati anch’essi, gravemente, in losche vicende. Che vi siano stati e vi siano magistrati incompetenti e/o corrotti può farsi rientrare, magari a fatica, nella fisiologia del sistema. Ciò che diventa inaccettabile, segno di crisi estrema, è l’incapacità di isolare ed espellere i corrotti. Nella vicenda colpisce la circostanza che alcuni magistrati sotto inchiesta facciano (o abbiano fatto) parte del Csm. Il Consiglio, organo di rilevanza costituzionale, deve garantire, nell’esercizio delle sue delicate funzioni, l’assoluta autonomia della magistratura. Rispetto a tale modello «ideale» fa quasi rabbrividire (magari non sorprende più di tanto) ciò che sembra venir fuori dalle indagini della Procura di Perugia. Quale significato possono avere telefonate, colloqui, messaggi, note scambiate tra politici, magistrati e affaristi di dubbia fama? Anche al netto di responsabilità penali ancora da accertare, siamo di fronte a un quadro desolante, che sconfina con lo squallore: incrociarsi e sovrapporsi di interessi particolaristici, di pressioni illecite, di accordi occulti a vantaggio di Tizio o a svantaggio di Caio. Sembra essere ormai alle prese con una crisi di legittimazione, frutto di una debole coscienza etica e di un slabbramento del tessuto civile, che trovano alimento nella debolezza e nell’insipienza del ceto politico.

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