Il decreto dignità
danneggia le aziende

È confortante l’impressione che si ricava dalle parole e dall’atteggiamento del nuovo ministro dell’Economia. Sentendolo via web in Commissione Bilancio, Giovanni Tria ha confermato buon senso, conoscenza del quadro, consapevolezza del complicato problema che gli è stato affidato, più dal presidente Mattarella in verità che dai Dioscuri del Governo strano strano degli ex nemici di campagna elettorale. Il teorema che gli tocca dipanare è ben noto: come conciliare la richiesta di stabile continuità che viene dai mercati, con una maggioranza parlamentare tutta affascinata dal mito del cambiamento ad ogni costo. I due leader di partito sembrano aver già fatto la loro scelta: se una decisione si scontra con la realtà dei numeri, tanto peggio per la realtà e per i numeri. Alla peggio, ci sarà sempre un nemico contro cui scagliarsi.

Tria ha invece pacatamente sostenuto che non bisogna impressionarsi più di tanto se un certo programma «sembra» non avere coperture finanziarie, con ciò giustificando il fatto che nel famoso contratto ci fossero uscite per 120 miliardi ed entrate per pochi bruscolini. Ciò che conta – ha fatto presente – è vedere se, una volta fissato un motivo di spesa, esiste o no la relativa entrata, e questo si può verificare solo quando la copertura sarà o non sarà trovata. Un discorso in qualche modo (per ora) disarmante, che ha il solo difetto di non essere accompagnato da qualche invito alla prudenza indirizzato ai suoi danti causa, innanzitutto sui tempi, perché i ministri fanno a gara per il tutto e subito.

La differenza è che il più astuto dei due evita motivi di nuove spese e punta sull’effetto comunicazione, mentre il ministro del Lavoro, inebriato da una parola che si dovrebbe usare con prudenza – dignità – si è subito infilato in scelte che costano o che incidono sulle entrate. Dopo aver fatto promesse per cambiar tutto fin dalla mattina del 5 marzo, non poteva più aspettare. Il decreto con quel nome impegnativo andrà sottoposto ad una verifica molto seria, che probabilmente i parlamentari leghisti si incaricheranno per primi di sviluppare in sede di conversione. Per ora, introduce falle delle norme anti evasione fiscale, appesantisce la burocrazia aziendale reintroducendo le ormai dismesse «causali» nei contratti a termine, raddoppia i costi e le penalità, incoraggia il lavoro nero. Proprio il contrario di quanto richiesto dalle imprese visitate nel corso di trepidanti Assemblee di categorie che sono oggi unanimi nel protestare. Di tutto questo, il ministro Tria ha da dolersi per quanto riguarda rinvii di entrate e oneri nuovi, ma – ha fatto capire – si tratta di cose meno gravi dei miliardi persi per l’effetto annuncio di parlamentari un po’ spericolati nell’anticipare le loro velleità (uno di questi era seduto accanto al ministro, perché nel frattempo promosso presidente della commissione Bilancio).

Un decreto comunque piccolo piccolo, caduto per di più nel giorno sbagliato, quello degli annunci Istat sui dati positivi dell’occupazione. Una cosa, insomma, che non è né «comunista» come lamenta la Meloni, né dalla parte dei sindacati, che hanno ben altro da chiedere. È solo un’affermazione stizzosa di presenza.

Ben più ampio è il problema della politica complessiva del lavoro, i cui cardini attuali – flessibilità, contrattazione aziendale, incentivazione della stabilità, forte spinta al 4.0 – non si capisce ancora se saranno buttati all’aria, come sembra da certe frasi sulla fine del Jobs act già pronunciate con sorridente fierezza.

Buona cosa sarebbe cambiare il nome di quella legge, infelicemente denominata in inglese, ma nel merito ci sono almeno le imprese del Nord produttivo che si augurano a chiare lettere che il vento del cambiamento soffi altrove.

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