Il fascino dei mondiali
I simboli guerreschi

Sono ripresi, trionfalmente, i mondiali di calcio. Senza l’Italia e, con gli ottavi di finale, senza la Germania, campione mondiale. E senza tante altre squadre che hanno dovuto fare le valige. Dunque senza l’Italia. Questo ci intriga molto, ovviamente. C’è però da notare che sono state smentite le previsioni pessimiste di chi diceva che, senza gli azzurri, gli italiani avrebbero seguito poco i mondiali. Invece l’interesse resta e pare sia molto alto. Si possono trovare tante ragioni per spiegare questa relativa sorpresa. Esiste una
globalizzazione del calcio come esiste una globalizzazione di tutto il resto. I giovani, in particolare, sanno tutto di tutto il mondo del calcio e conoscono benissimo le vicende dei vari campionati, europei e non solo.
Ma la facilità e la volatilità delle notizie sportive non bastano a spiegare questa diffusa passione.

Bisogna risalire a simbolismi più profondi che vengono prima della stessa globalizzazione. Il calcio, tra le altre cose, risente fortemente di simbolismi «guerreschi». Alcuni dei termini più usati nel glossario calcistico sono significativi. Esempio: «attacco» e «difesa», «bomber» e «cannoniere». Facilmente si parla di «tiro in porta» e se il tiro è particolarmente forte qualche giornalista che vuole essere brillante parla di «fucilata»… Nelle cronache calcistiche si parla di «scontro», di «lotta per lo scudetto o per la retrocessione», di «battaglia» con le varianti suggerite da un vasto corollario di aggettivi e tanti altri termini simili.

Si può tranquillamente notare che si tratta di termini talmente calcistici che si è finito per dimenticare la loro origine militare e guerresca. Ma una partita di calcio resta, comunque, una guerra, una piccola guerra tra due piccoli eserciti. Piccola, certamente, ma grandiosamente ingigantita dagli spettatori, con le loro opposte fazioni, gli sfottò, gli insulti, le proteste. Poi, sul grande scontro del pubblico, irrompe la televisione che trasmette al mondo intero la piccola guerra sul campo e lo scontro degli spettatori sugli spalti. A quel punto la piccola guerra non è più piccola. Ma, sempre, con un particolare decisivo ed evidente: che si tratta di un gioco. Qualcuno parla anche di «rito». Rito e gioco dicono, in sintesi, che la guerra del calcio è una guerra per modo di dire: non si fa la guerra, ma si gioca alla guerra, oppure, se si preferisce, si mette in scena la rappresentazione simbolica, rituale della guerra. Per questo nel calcio è fondamentale il regolamento e l’arbitro che lo fa osservare: il regolamento, infatti, fa in modo che il gioco resti gioco e il rito resti rito. Il gioco e il rito sregolati degenerano, il gioco finisce e scoppia la guerra vera. Capita, come sanno tutti: è la violenza sui campi di calcio, sugli spalti degli stadi, nelle strade delle città.

L’aspetto «guerresco» del calcio spiega l’interesse di noi italiani per i mondiali di calcio, anche in mancanza della «nostra» squadra. La realtà è che tutti ci sentiamo immersi in un universo dove tensioni e contrasti sono quotidiani. Dalla famiglia, al condominio, alla scuola, al lavoro vivere tensioni e contrasti è normale. Siamo sempre in guerra, in qualche modo. Allora il grande gioco della guerra calcistica, nobilitata dal fatto che è «mondiale», diventa straordinariamente suggestivo e ci cattura. Chi si sente in guerra, gode che il calcio sia comunque una guerra e vi si butta dentro. Chi ha paura della guerra, invece, gode che ci sia un evento, per di più mondiale, che sa disinnescare la violenza e farla diventare un gioco.

E così si spiega che si faccia tutto questo tifo ed è facile, molto facile, prevedere che il tifo aumenterà. L’Italia non c’è, ma è sicuro che i prossimi giorni saranno comunque caldissimi.

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