Il Giovane Papa
tra realtà ed equivoci

Quella mattina dell’11 febbraio 2013, nella quale Benedetto XVI annunciava tra la costernazione generale le sue dimissioni, dopo qualche comprensibile istante di sconcerto, nella mente di molti il pensiero andava quasi meccanicamente a un film di Nanni Moretti, uscito nel 2011, ma che da quel momento cominciava a essere considerato una sorprendente per quanto forse involontaria profezia.

Quel gesto di divinazione cinematografica, che in piena era Ratzinger aveva immaginato l’universo parallelo di un esitante Papa francese, configurava l’aspettativa di un cattolicesimo dubitativo, attraversato dall’incertezza ma dal volto umano, animato dall’autorevolezza dell’umiltà.

Nell’eccitante stagione di questo pontificato francescano compare invece, dopo una preparazione pubblicitaria da guerre stellari, il futuribile Papa giovane di Paolo Sorrentino, serie televisiva nella quale, come sempre succede e come recitano le interviste preparatorie, quello religioso sembra solo lo sfondo più utile a parlare d’altro, del potere, dello smarrimento identitario dell’uomo di oggi, dell’incerto destino della fede religiosa nel contesto della cultura secolarizzata.

Tuttavia, poiché un prodotto televisivo è fatto soprattutto di immagini, la scelta dello sfondo è tutt’altro che neutra, configura delle predilezioni, prende all’amo delle aspettative, veicola reali desideri identificativi. L’atmosfera nella quale si dipana la contorta vicenda dell’immaginario Pio XIII, è un cattolicesimo di morbosa e decadente raffinatezza estetica, intransigente ed equivoco, tutto pizzi, carogne e penombre, sulfuree combriccole di monsignori con i gemelli ai polsi, silenziosi sottoboschi di vita religiosa ai confini della realtà. Un cattolicesimo di sublime malata eleganza, immerso nella cloaca istituzionale, nel piacere decomposto della vita di corte, intriso di complessi materni irrisolti, strani triangoli edipici, l’orfanello con la valigia, la maternità surrogata della suora con la sigaretta in bocca, l’assenza del padre (eterno) e i tormenti della fede, che sublima la vertigine del dubbio nell’intransigenza del dogma (Dio non esiste ma la sua assente divinità è visibilmente efficace nella grande bellezza della religione che lo immagina: questo è il vero sottinteso della serie). Solo un napoletano che ha respirato aria americana, poteva confezionare un prodotto così improbabile ed efficace, fantasioso ma convincente, capace di rovistare con un fiuto infallibile nella discarica dell’inconscio collettivo. La serie è partita in tono sciallo, come quando si dispongono le pedine per una partita a scacchi che si annuncia tesa e avvincente, ma ancora senza intrecci incandescenti. Appena però compariranno la tiara dismessa da Paolo VI, i piviali neomedievali, le chiroteche, il saturno impreziosito di fregi dorati, e tutto il repertorio di una seducente lussuria liturgica, la presa emotiva sul pubblico volerà verso il suo apice.

Questo cattolicesimo, così efficacemente messo in scena, passando sopra all’autorappresentazione del reale cristianesimo di base e compiacendo forse qualche ridotta romana, è quello che da tanto tempo piace deprecare, piace disapprovare, piace mettere a bersaglio del rancore collettivo nei confronti della cultura religiosa, piace innalzare a documento dell’inautenticità credente, piace criticare come invadente imbucato nella vita pubblica, piace disapprovare, biasimare, riprovare.

Ma soprattutto, piace. Possiede una sinistra attitudine attrattiva. Conserva quell’immagine residua della religione per la quale si prova una struggente nostalgia. Rappresenta la Chiesa con la quale è bello polemizzare quanto scambiare interessi. Quel mondo di arcaiche superate illusioni che sa ancora però offrire l’incanto estetico di cui il sistema nervoso della società secolare continua a avere bisogno. Ma anche quella in cui trasogna ancora beata la predilezione di molti credenti profondamente a disagio con il cattolicesimo popolare di Papa Francesco.

Nel teatro visivo della nostra cultura mediale, nella quale il confine fra la realtà e le sue narrazioni è sempre più incerto, questa letteratura di base che è diventata la serialità televisiva (persino più del cinema) ci aiuta e ci costringe a specchiarci negli umori che ci dominano. Persino a nostra insaputa. Non sempre vediamo quello che siamo. Molto più spesso siamo quello che vediamo.

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