Il lavoro più leggero
Una buona idea, ora

Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha finalmente lanciato la «semipensione». Una misura sperimentale che permette a chi ha già maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia (almeno 20 anni di contributi) e soprattutto un’età di 63 anni e sette mesi (62 anni e 7 mesi per le donne) di vivere un originale e inedito limbo a metà tra il lavoro e la pensione. Tecnicamente si chiama «part-time agevolato» ed è destinato ai soli lavoratori del settore privato.

Se l’azienda è d’accordo (e molte lo saranno perché il costo del lavoro di chi è a fine carriera è solitamente piuttosto alto) il dipendente può contrattare una riduzione del proprio orario di lavoro dal 40 fino al 60%. Potrebbe ad esempio venire in azienda le sole mattine (il mattino lavoratore, il pomeriggio pensionato). Oppure lavorare dal martedì al giovedì. Il resto della settimana sarebbero già praticamente in pensione. Per effetto di questa agevolazione la paga non si ridurrebbe proporzionalmente ma sarebbe più alta, poiché il datore di lavoro verserebbe direttamente in busta paga i contributi della parte ridotta. In pratica, se un dipendente decide di fare il part-time al 50% e guadagna 1.500 euro netti al mese, non ne prende 750 bensì 950. Ma lo Stato continua a versare i contributi figurativi. Dunque quando, tre anni dopo, scatterà l’età per la pensione di vecchiaia (66 anni e sette mesi) il pensionato godrà della pensione come se avesse lavorato a tempo pieno. Dunque nessun danno o compromesso alla pensione futura.

Una buona idea? Assolutamente sì, poiché innanzitutto permetterebbe al dipendente di alleggerire il peso della sua attività e si sa che molti dipendenti a fine carriera si sentono meno vitali e motivati, soprattutto in certi comparti. Sperimenterebbero un assaggio di un nuovo stile di vita in anticipo e soprattutto favorirebbero il turnover a vantaggio delle nuove generazioni (sempre ammesso che un datore di lavoro abbia necessità di sostituire un giovane a tempo pieno con un anziano a tempo parziale, ma va anche detto che finora si è più spesso verificato il contrario). Inoltre la riduzione, come detto, alleggerirebbe il costo del lavoro per le aziende.

È la prima volta che lo Stato inverte il corso dell’età pensionabile, ormai salita fino a limiti più alti d’Europa per effetto della riforma lacrime e sangue del 2011 della «tecnica» Elsa Fornero. Forse si comincia a capire che nonostante l’aspettativa di vita sia salita e le casse dello Stato non siano in equilibrio, innalzare l’età fino ai 70 anni non è stata una brillantissima idea. Per molte categorie, non necessariamente quelle definite usuranti, è un limite di età pazzesco. Pensiamo a un lavoratore del comparto edile, sui cantieri fino a 65 anni e oltre. Ma anche a un maestro elementare, o un infermiere, o un lavoratore del settore marittimo o della ristorazione. La cattiva notizia è che questo decreto legislativo ha una copertura finanziaria infima, pari a 60 milioni di euro nel 2016 (per poi salire a 120 nel 2017 e ridiscendere nel 2018 a 60 milioni di euro). Nel 2016, calcolano i tecnici del ministero del Lavoro, il part-time sarà disponibile per soli 20 mila lavoratori. La Uil ha anche lamentato il fatto che le donne, per motivi complessi che non stiamo a spiegare (l’effetto del diverso requisito anagrafico degli ultimi anni e l’equiparazione nel 2018) siano sfavorite da questa legge. Inoltre è un provvedimento valido solo per il settore privato e non per quello statale. Che però ha largamente beneficiato nel corso degli ultimi decenni delle facilitazioni legate alla pensione.

Ora non resta che aspettare per capire se l’idea è buona o se si rivelerà un flop, come il Tfr in busta paga.

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