Il malessere cinese
e il rischio epidemia

Le economie dei Paesi emergenti, dopo avere supplito, con la propria crescita, nella formazione del Pil mondiale, alla crisi che ha investito il mondo occidentale a partire dal 2007, denotano al presente significativi rallentamenti, non compensati, per ora, da una robusta crescita economica occidentale.

Il caso su cui l’attenzione più si appunta, anche per le dimensioni del Paese, è la Cina; ma, come noto, cala il Pil in Russia, in Turchia e in Brasile; segni di rallentamento si rilevano in India e in Messico; squilibri gravi emergono in Venezuela, e in molte altre parti del mondo. L’economia globale, insomma, è in difficoltà. Gli effetti, di quanto finora qualificato come malessere generale, si notano nel calo continuo dei prezzi del petrolio e delle materie prime, con ripercussioni intuitive per i Paesi produttori dell’uno e delle altre.

Il caso cinese, si è detto, è il più commentato. La Cina ha principalmente fondato la crescita del Pil sugli investimenti, finanziati in prevalenza a debito. Una via di sviluppo percorsa, nei primi tre decenni delle seconda metà del secolo scorso, anche in Europa e come noto in Italia. A un certo punto la propensione ad investire cala a motivo che si determina una capacità produttiva in eccesso, data la tumultuosa corsa a ottenere beni strumentali, e per l’incidenza, viepiù gravosa, del servizio di pagamento dei debiti. Secondo taluno, le imprese cinesi hanno anche fatto troppo ricorso all’indebitamento in dollari. Consegue un deterioramento della qualità dei prestiti del sistema bancario della Cina, con ripercussioni pure sulla propensione ai consumi per sintomi di instabilità nel complesso delle imprese. Tale, in sintesi, la diagnosi, giudicata più puntuale, del così detto malessere cinese.

Vi è però da temere che si pecchi di ottimismo giudicando la situazione descritta come un malessere: potrebbe trattarsi di una malattia. Forse analoga in India, Turchia e Brasile. In ogni caso, l’effetto è sfavorevole nella formazione del Pil mondiale, e impone ai sistemi delle imprese occidentali di riconsiderare le vie da seguire per la produzione di beni e di servizi, che non possono più essere quelle in atto nei primi anni di questo secolo. Occorre sperare nella innovazione tecnologica, nella ricerca scientifica, nella consapevolezza che necessita un nuovo modello del capitalismo.

Vi è, a tale proposito, chi pensa alle fonti di energia alternative; chi invece vorrebbe implementare ancora l’information technology; chi pensa di rivoluzionare i sistemi di spostamento nello spazio delle persone e dei beni, sì da far diventare il mondo ancor più piccolo, con effetti molto rilevanti sulla localizzazione delle imprese e sui sistemi di distribuzione; e così via. E come dovranno cambiare le vie di mobilitazione e di remunerazione del risparmio? E le politiche economiche? La ricerca scientifica assurge a prima importanza.

L’opinione comune è che i modelli economici e di organizzazione del lavoro, validi fino all’inizio di questo millennio, siano superati e che, in ogni caso, la crescita economica dei miliardi di abitanti dei Paesi qualificati come emergenti vada perseguita. Ciò che, forse eufemisticamente, chiamiamo malessere cinese ci avverte che si pongono sulla scena del mondo problemi di cambiamento epocali. Il tempo necessario affinché si concretino è ignoto; di sicuro molto più breve di quello che intercorse tra la caduta dell’impero romano e il Rinascimento.

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