Il merito e il voto
al referendum

Finite le Olimpiadi, al centro dell’informazione è tornato il dibattito sulla riforma costituzionale, dal quale emergono posizioni non sempre centrate sul merito della riforma, ma piuttosto orientate ad alimentare un vero e proprio scontro politico. I sostenitori del sì (maggioranza del Pd, alcune formazioni di centro e dissidenti di Forza Italia), definiscono la riforma «un necessario momento di rinnovamento del Paese» e richiamano l’attenzione degli elettori sugli aspetti positivi.

Tra questi: l’abolizione del bicameralismo perfetto, attuato per rendere più snella l’attività legislativa e più efficace l’azione di governo; il ridimensionamento del ruolo del Senato e la diminuzione del numero dei senatori (da 315 a 95); l’abolizione del Cnel e il completamento dell’iter per l’eliminazione delle Province; il rafforzamento dello Stato centrale cui vengono ricondotte materie strategiche (trasporti, energia, promozione turistica) sottratte alle Regioni; la ridefinizione delle competenze fra Stato e Regioni, con l’inevitabile riduzione dei tanti contenziosi difronte alla Corte Costituzionale che potrebbero trovare nel nuovo Senato più agevoli componimenti.

I sostenitori del no, che rappresentano un caleidoscopio politico (sinistra-sinistra, M5S, Forza Italia, Lega e destra fino a Casa Pound), danno a loro volta un giudizio del tutto negativo della riforma evidenziando, però, differenti punti di vista. C’è, ad esempio, chi avrebbe voluto che il nuovo Senato fosse eletto direttamente dal popolo e non per il tramite degli enti locali; ma c’è anche chi si dichiara favorevole alla totale abolizione del Senato. C’è chi sostiene che la riforma, con il ridimensionamento del ruolo delle Regioni, prefiguri la fine del federalismo. Ma c’è anche chi avrebbe preferito che, come avvenuto per le Province, si fosse avviato un processo per la loro eliminazione. Solo su una posizione tutte le opposizioni si sono trovate unite. È quella assunta da un gruppo di autorevoli intellettuali e costituzionalisti, secondo i quali la «Costituzione vigente è la più bella al mondo e la proposta di riforma, anche se solo della parte ordinamentale, la snatura introducendo principi antidemocratici». Da questa valutazione, per alcuni aspetti condivisibile sul piano strettamente giuridico, si è preso spunto per affermare che «la riforma è un attacco alle nostre libertà», perché snatura il carattere parlamentare del sistema politico italiano, attribuendo poteri eccessivi al presidente del Consiglio e introducendo un premierato prossimo all’autocrazia. In realtà, a leggere il testo della riforma, tutto questo non si evidenzia. Il presidente del Consiglio, locuzione introdotta dai nostri Costituenti per sottolineare l’esiguità dei suoi poteri, non sembra poter beneficiare di un accrescimento degli stessi. La sua azione potrà certamente incontrare minori ostacoli e maggiore snellezza per la fine del bicameralismo, ma chiunque ricoprirà in futuro questa carica rimarrà solo un «primus inter pares», soprattutto se non sarà anche segretario del suo partito. Il suo potere non sarà paragonabile a quello dei premier delle più consolidate democrazie europee.

La riforma, infatti, non introduce il principio della «sfiducia costruttiva», in base al quale un governo cade solo se ve ne è un altro pronto a subentrargli. Ancora, non è assegnato al presidente del Consiglio il potere di nominare o dimettere i ministri e di sciogliere il Parlamento a legislazione in corso. Toccherà sempre al presidente della Repubblica il compito di affidare l’incarico per formare il governo e spetterà sempre a lui di nominare o revocare ministri. Come anche permane nelle sue prerogative quella, già utilizzata in tempi recenti, di condizionare l’evoluzione di una crisi governativa e di determinarne le conseguenze.

È evidente, allora, che le finalità politiche assegnate fin dall’inizio al voto, per responsabilità di favorevoli e contrari alla riforma, porti anche ad esasperare toni e valutazioni pur di ottenere un risultato positivo. In questo clima è inevitabile che il risultato referendario non potrà essere frutto di una libera e responsabile scelta popolare. Perché nessuno leggerà i 48 articoli della Costituzione da cambiare per comprendere responsabilmente le ragioni del sì e del no. Non lo faranno neppure molti parlamentari che oggi affollano i salotti televisivi e occupano le testate dei giornali cercando di influenzare gli elettori con le argomentazioni più suggestive.

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