Il Papa a Lesbo
Che futuro vogliamo?

«Dio ci chiederà conto di come trattiamo gli immigrati». Lo aveva detto tre anni fa sbarcando su un’altra isola, allora epicentro delle rotte dei migranti, Lampedusa. Il 16 aprile il Papa torna in un’isola del Mediterraneo, con un viaggio lampo e destinato ad avere un impatto ancor più forte.

L’isola è Lesbo, la più grande dell’arcipelago greco, ad appena 60 km dalle coste turche. È da qui che lo scorso anno sono transitati centinaia di migliaia di migranti, gran parte in fuga dalla Siria. Un numero imprecisato di loro non ce l’ha fatta a varcare quella stretta fetta di mare e si è aggiunto alle tante, troppe vittime inghiottite dal mare. Ultimamente a Lesbo le cose sono cambiate, e non certo in meglio. Gli accordi grazie ai quali l’Europa ha «scaricato» sulla Turchia, compensata a suon di milioni di euro, il flusso dei migranti in arrivo, hanno creato una situazione tragicamente kafkiana. Chi riesce ad arrivare sulle coste dell’isola greca, viene rinchiuso in uno dei cosiddetti hotspot, sostanzialmente dei campi di detenzione. O viene rimpatriato in Turchia o sottoposto a delle procedure per il diritto d’asilo, che durano circa un mese.

In questa situazione di limitazione di libertà, le ong impegnate nell’accoglienza ai profughi come Oxfam e Medicins sans frontières, hanno preferito tirarsi indietro. Nell’isola ad oggi sono circa 3/4mila migranti che vivono in questa situazione; tra loro un quarto sono minori. 200 sono non accompagnati. Nel frattempo, dall’inizio di aprile, in virtù degli accordi in sede europea, sono i iniziati i primi rimpatri forzati verso la Turchia, cioè in un paese che non riconosce la convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati.

Lesbo è diventata così l’emblema di tutte le incongruenze e le ipocrisie europee. Per questo il Papa l’ha scelta come meta simbolo di questo suo viaggio lampo, per ribadire un’altra volta quell’«avvertimento» fortissimo lanciato a Lampedusa. Ma questa volta il viaggio del Papa si connota di un altro significato, ben più che simbolico. Infatti insieme a lui ci saranno il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, cioè una delle massime cariche della chiesa ortodossa, e l’arcivescovo ortodosso di Atene Hieronymus. Sulla vicenda dei migranti la posizioni delle chiese di Roma e di quelle orientali è assolutamente identica. Nelle settimane passate Il patriarca greco si era recato in un altro punto nevralgico del paese sul fronte dell’emergenza profughi, il porto del Pireo, dove aveva distribuito viveri e coperte insieme ai volontari.

Questa unità di visione e di azione ha una ricaduta importante: non ci si limita infatti a stigmatizzare legittimamente le scelte politiche che Bruxelles sta facendo sulla questione dei migranti. Il volto e le parole delle autorità delle chiese cristiane staranno soprattutto a testimoniare il volto visibile e possibile di un’altra Europa. Questo è il grande segno che il 15 aprile ci investirà tutti. È una sorta di ecumenismo dei fatti, che mette i diritti alla vita delle persone, la cultura dell’accoglienza al centro di un altro modo di essere Europa.

Non siamo davanti alla vecchia diatriba sulle radici cristiane del continente. I tre leader che pure hanno una storia di secoli alle spalle, a Lesbo guarderanno solo avanti. Ci costringeranno dire a noi stessi, e al mondo che sta alla porta, quale futuro vogliamo. Se quello selettivo e ultimamente disumano del continente fortezza. O quello del continente che con senso civile, affronta le sfide anche difficili che la storia gli sottopone. Il Papa, Bartolomeo e Hieronymus a Lesbo saranno i volti di un’altra Europa possibile. Non si potrà non scegliere.

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