Il Papa e il fine vita
Il ruolo dell’ascolto

Le parole di Papa Francesco sul fine vita hanno dato adito a interpretazioni molto differenti tra i politici. Chi ha voluto vedere un importante «segnale di apertura al tema della sospensione delle cure» e quindi una spinta all’approvazione della legge sul biotestamento ferma al Senato e chi al contrario non ha visto «alcun cambiamento di idea o modifica alla dottrina della Chiesa in materia di fine vita» e pertanto meglio aspettare la fine della legislatura quando la legge decadrà. Il presidente della Pontificia Accademia della vita mons. Vincenzo Paglia, ha però detto che il Papa «ha ribadito posizioni consolidate, ma con precisazioni e tonalità nuove». Quindi qualcosa di nuovo c’è. Ma cosa? Nel Catechismo già si diceva che c’è differenza tra eutanasia, cioè «voler procurare la morte» e riconoscere la possibilità di «non poterla impedire» (CCC., n. 2278), ma va preso atto che oggi le frontiere della medicina si sono spostate e il rischio di finire dentro un tunnel nel quale le possibilità tecnologiche di prolungare la vita confliggano con la possibilità di vivere la propria morte è più reale che mai. Per questo «occorre un supplemento di saggezza» – dice il Papa – per evitare che trattamenti ancora efficaci sul corpo non giovino però «al bene integrale della persona».

Questo è il punto: la medicina è sempre per la persona e se perde di vista il bene del malato si trasforma in accanimento terapeutico. Dai tempi di Pio XII la Chiesa insegna che «non c’è alcun obbligo di impegnare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili» per prolungare la vita a tutti i costi, anzi in certi casi «è lecito astenersene». Quale terapia fare o quale ausilio posizionare nel corpo di un malato terminale o gravemente disabile dovrebbe essere oggetto di un attento discernimento, perché non è facile in certe situazioni trovare il giusto equilibrio tra l’insistere e il desistere. Questa fatica di individuare cosa è meglio per le persone corrisponde al criterio etico e umanistico della «proporzionalità delle cure». Per cui bisogna sempre tener conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche, psichiche e morali prima di intraprendere un trattamento. Ma chi stabilisce se iniziare, rinunciare oppure se interrompere una cura?

«In questo percorso – dice il Papa – la persona malata riveste il ruolo principale». E qui sta, a mio avviso, una nuova tonalità: ciò che la persona vuole o si sente di fare ha il peso maggiore nella decisione. Non è più accettabile alcuna forma di «paternalismo» per cui il medico decide unicamente in base alle sue competenze scavalcando il parere del paziente. Piuttosto i medici hanno il dovere di illustrare in modo comprensibile i reali benefici, le eventuali complicanze, i rischi e i costi a cui si va incontro, ma nessuno meglio del paziente può dire quanto sia gravoso, accettabile e sopportabile una cura chemioterapica o un mezzo per respirare o mangiare. In momenti così delicati e a volte drammatici, non è per nulla facile decidere, per questo servirebbe un continuo dialogo tra medico, paziente e i suoi famigliari per capire quale passo è più opportuno fare.

In certe situazioni cliniche – di incoscienza per esempio – potrebbero essere d’aiuto anche le Disposizioni Anticipate di Trattamento, ma andrebbero pensate come una forma di responsabilità condivisa. Possono infatti aiutare medici e parenti a capire le volontà del malato, rispettandone la libertà e mettendo in atto tutto ciò che ancora giova al bene di quella persona. Sapendo che anche quando non è più possibile la guarigione, con le cure palliative si può puntare a una buona qualità della vita, alleviando il dolore, garantendo assistenza qualificata. C’è un modo dignitoso di vivere le fasi finali della propria vita, dove nessuno è abbandonato e c’è un modo umanamente ragionevole di essere aiutati ad affrontare la morte. Medici e infermieri sono capaci di fare questo, senza diventare coloro che permettono alle persone di suicidarsi. Amore e vicinanza sono sempre la «cura» più efficace.

Tutto questo discorso passa attraverso quella «prossimità responsabile», che Papa Francesco chiama «comandamento supremo», che ci impone di non dimenticare i più deboli e i più poveri, ma che in una società di ricchi e cure costose, rischiano di essere vittime di una grave ineguaglianza terapeutica. Per questo le parole del Papa possono essere viste come un invito ai politici a creare un clima «di reciproco ascolto e accoglienza», presupposto indispensabile per servire il bene delle persone.

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