Il paradosso Usa
un’economia militare

Il primo progetto di bilancio di Donald Trump ha fatto discutere come ogni altra cosa che riguarda il nuovo presidente americano. Il dato più clamoroso è l’aumento del 10% delle spese per la Difesa. Si tratta di 52 miliardi di dollari in più che verrebbero recuperati con forti tagli alle spese per l’ambiente, la cultura e gli aiuti a Paesi esteri. Il Pentagono, cioè, porterà via fondi all’Agenzia per la tutela dell’Ambiente e al Dipartimento di Stato (il ministero degli Esteri degli Usa). Per dare un’idea di quanto «pesi» quell’aumento da 52 miliardi, basterà citare un dato: nel 2016, l’intero bilancio per la Difesa della Russia, fino a oggi l’arcinemico degli Usa, è stato di 49 miliardi.

Se poi uno pensa che dal 2001 a oggi gli Stati Uniti hanno riversato quasi 9.350 miliardi di dollari in spese militari, che hanno tuttora 800 basi militari in 80 Paesi e che l’ultimo bilancio per la Difesa firmato da Obama era comunque superiore a quello dei seguenti dieci Paesi della graduatoria delle spese militari messi insieme, vien da chiedersi se Trump e i suoi ministri non siano ammattiti. O se non abbiano in mente di dichiarare guerra a Russia, Cina ed Europa nello stesso tempo.

Né l’una né l’altra cosa, ovviamente. Se Trump volesse scatenare una guerra, già troverebbe negli arsenali americani molto ma molto più del necessario. La potenza militare Usa, checché ne dicano i fanatici come il senatore John McCain (che vorrebbe assai più dei famosi 52 miliardi di Trump), non teme confronti e sarebbe stata più che sufficiente anche in passato per regolare i conti con l’Isis e il terrorismo islamico, che ora Trump usa come «scusa» per il progetto di bilancio. Nessuna tregenda atomica in vista, quindi.

E non si tratta nemmeno di follie. Certo, sottrarre risorse alla cura dell’ambiente, alla conoscenza e alla cooperazione allo sviluppo è un grave segno di miopia, l’inseguimento di un risultato immediato a scapito della prosperità e della stabilità del mondo di domani. Ma è la miopia tipica di quasi tutti i politici.

Buttando denaro nelle spese per la Difesa, Trump cerca di fornire una serie di stimoli alla crescita economica del Paese. In altre parole, facendo lavorare le grandi aziende del complesso militar-industriale (definizione che per primo usò il presidente Dwight Eisenhower nel 1961, nel suo discorso d’addio), la Casa Bianca spera di creare lavoro; con il lavoro, reddito; con il reddito, consumi; con i consumi, altro lavoro. Nello stesso tempo, arruolando migliaia di altri soldati (e migliaia di altri poliziotti) Trump crea dal nulla posti di lavoro e, cosa che al politico non dispiace mai, compiace l’elettorato. Le famiglie bianche impoverite o povere dell’America rurale che votarono per lui saranno infatti le prime a vedere i propri figli in divisa.

È un caso di «keynesianesimo militare», fenomeno noto e studiato. Ovvero, l’uso di risorse pubbliche nel settore Difesa come stimolo all’economia secondo le dottrine di John Maynard Keynes, l’economista inglese che per la verità invitava i Governi a spendere, ma «nell’interesse della pace e della prosperità». Ripetiamolo: è una politica poco saggia, che scarica sulle generazioni future il peso dell’oggi. Ma non necessariamente una politica pericolosa in senso militare. In ogni caso, è la risposta di Trump (e come tale ruvida e priva di mediazioni politiche e sociali) a un problema che affligge gli Usa, cioè la massa crescente di uomini tra i 25 e i 55 anni rimasti senza lavoro.

Molti economisti la definiscono una «catastrofe», racchiusa nel seguente paradosso: mai gli americani sono stati più ricchi (è loro il 34% della ricchezza privata mondiale) e mai così tanti di loro sono stati emarginati dalle attività produttive. Nel 2016 il tasso d’impiego (il rapporto tra il numero degli occupati e quello della popolazione) è risultato il più basso degli ultimi trent’anni. Se fosse pari ai livelli della fine del secolo scorso, quasi 11 milioni di americani in più avrebbero un lavoro e un salario. Oggi, invece, almeno 7 milioni di americani non hanno né lavoro né salario e hanno persino smesso di cercarli.

Insomma, si torna sempre alla casella del via: le questioni irrisolte che hanno portato Trump alla Casa Bianca sono le stesse che ispirano le sue prime decisioni. Il modo risponde, purtroppo, allo stile del personaggio e agli ambienti politici che lo circondano. Ma l’urgenza non può essere sottostimata.

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