Il passato cristiano
Sospetti e risposte

Mentre viaggio in macchina ascoltando la radio, sento una mattina la voce di Corrado Augias, noto anfitrione della cultura televisiva del pomeriggio, che intervistato da Chiara Valeri confessa ai microfoni di Materadio di essere sempre più interessato, via via che invecchia, alla strana natura degli italiani, sempre un po’ anarchica e svogliata, immaginando quanto migliori e uniti potrebbero essere, se nella loro storia tutto questo non fosse stato ostacolato da una serie di inconvenienti, che l’intervistato fa culminare (e qui il tono di voce si fa solennemente incisivo) con la presenza dello Stato Pontificio che ha fatto da tappo alla legittima aspirazione unitaria dell’intera penisola.

Nella mia mente, allenata a una moderna e televisiva composizione di luogo, prende forma all’istante la scena in cui, come in un frammento di sceneggiatura di certe serie televisive come «I Borgia» o «I Medici», una sequela di Papi consapevoli del futuro anelito unitario dell’Italia di domani, pianifica a tavolino il boicottaggio dell’impresa, scambiandosi torve occhiate di intesa con la solita cerchia di scaltri cardinali che portano al dito un anello grosso come un pomodoro.

Ma ora che elaboro meglio il ricordo di quell’ascolto, mi rendo conto che a impressionarmi non è tanto quell’affermazione, che espressa in modo meno grezzo avrebbe anche le sue ragioni, quanto l’applauso che dal pubblico vi è seguito quasi istantaneamente, spontaneo, meccanico, scrosciante, condiscendente, trapuntato di «si!» e di «bravo!» che si sentivano sorgere come certe esclamazioni, chiare e veementi, che la gente allo stadio pronuncia quando l’arbitro tira fuori il rosso in faccia a un avversario. In quell’applauso, così immediato e convinto, ho percepito una delle tante manifestazioni di qualcosa che, come l’inequivocabile sentore di un cambio di stagione, da molto tempo si sente nell’aria.

Parlo di quel profondo, diffuso, aspro risentimento sociale nei confronti della presenza cristiana, cattolica in specie, che va animando, con crescente dilatazione di intensità, il bagaglio di evidenze delle convinzioni collettive, che hanno assimilato come un dato di fatto, nemmeno più bisognoso di argomenti, un senso di disdegno preventivo nei confronti di un passato cristiano ritenuto equivoco in sé stesso e responsabile di ogni male del presente. Si tratta di un discredito preparato, con imperdonabile leggerezza e con un talento autolesionistico unico nel suo genere, dalle molte controtestimonianze accumulate nel tempo, che spesso nemmeno la contestualizzazione storica può realmente attenuare, dominato da un rigore moralistico protratto ben oltre le sue compatibilità culturali, aggravato progressivamente da una sempre più cronica incapacità della cultura credente nel fiutare i tempi. Per tacere di un declino estetico quasi senza più remissione.

La particolare longevità istituzionale della Chiesa cattolica l’ha resa poi paradossalmente più vulnerabile di fronte alla sua stessa storia e di fronte a un passato di cui in qualche modo è l’unica superstite. Ma si tratta anche di una squalifica costruita con pazienza da una vulgata intellettuale che goccia dopo goccia ha inciso nella pietra del senso comune il comandamento della detestazione automatica, del disdegno a prescindere, dell’avversione di principio. Tutto quel che è cattolico è per definizione inautentico, sottoculturale, sospetto, inattuale, oggetto di un’antipatia radicata su cui si può sempre contare. Per avere applausi sicuri in televisione. Ma anche per «fare notizia» sul giornale (mai espressione è stata più precisa nel confessare la componente di fabbricazione insita in ogni scoop che si rispetti).

Voglio però evitare, con queste mie considerazioni, di risvegliare l’orgoglio religioso di quei già troppi credenti costantemente inclini all’isteria controculturale, portati a farsi trascinare in contese pubbliche in cui il gioco delle parti rende ancora peggiori di come si viene dipinti. Vorrei quindi pregarli di non prendermi a pretesto e di intendermi bene. Non lamento discriminazioni peraltro inesistenti. Mi preme osservare un fenomeno. Il nostro comune passato cristiano, spirituale e umanistico, non va più spontaneamente nel conto del virtuoso bagaglio civile della nuova Europa, non sta nell’album dei bei ricordi di famiglia. Non solo non ispira riconoscenza. Ma attrae sospetto. Suscita repulsione. I suoi meriti non sono mai abbastanza documentati e i suoi demeriti sono sempre chiaramente palesi. Il suo storico veicolo cattolico viene scansato con gli scongiuri che un tempo si riservavano ridacchiando alle vecchie Prinz, quelle automobili verdastre a forma di vasca da bagno, guardate da tutti come segno di cattivo gusto e di sciagura. Per usare una parola difficile che i sociologi copiano dagli psicologi, si dovrebbe dire «abreazione», che vuol dire più o meno rigetto, ripudio, liberarsi da quello che viene percepito come un lontano trauma da esorcizzare.

Ecco cosa ho sentito, ascoltando una mattina la radio, in quell’applauso sonoro e perentorio. Siamo o sembriamo la Prinz del nostro parco macchine sociale. Almeno in questa parte del mondo neotutto e postqualsiasicosa. A cosa serve dirlo? Beh, intanto a rendersene conto. Non come vaga sensazione di un disagio imprevisto. Ma come piena avvertenza di una trasformazione perfettamente decifrabile. Di cui è sempre possibile smascherare molti pregiudizi, ma ancora più saggio interpretare i messaggi. Per un fatto di realismo, di lucidità. Anche solo come specchio per le nostre riforme sempre molto tentennanti e per i nostri processi di discernimento sempre alquanto autoreferenziali. Senza vivere con rassegnato rancore ciò che sollecita il nostro senso critico. Sapendo che c’è un tempo per tutto. Anche per un silenzio operoso che accoglie umilmente la lezione della storia senza concedersi all’umiliazione di mulinanti dibattiti dallo schema prestabilito. Non senza la premura di ricordare a molti, con fraterna gentilezza e per consolidata esperienza, che tutti finiscono per appartenere a una storia, e arriva per tutti un futuro che la giudica dal comodo pulpito dell’ultimo arrivato.

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