Il Pd ristagna
nella palude

Il Partito democratico è così lontano dallo smaltire lo schiaffone ricevuto in faccia dall’elettorato il 4 marzo scorso che, ripiegato su se stesso, sa solo litigare su lotte di potere interno che nulla hanno a che fare con la politica dell’Italia. La lite sulla cena che Carlo Calenda avrebbe volentieri offerto a casa sua a Renzi, Gentiloni e Minniti per cercare di trovare un accordo tra notabili del partito, è significativa di questa infaticabile inerzia in cui il Pd ristagna. La proposta di Calenda ha fatto naturalmente arrabbiare tutti gli esclusi, automaticamente declassati alla serie B del gruppo dirigente, al punto da far arretrare gli invitati (che pure erano propensi) costringendo l’anfitrione ad annullare l’invito e a commentare: «Sono tutti pazzi, non hanno bisogno di un segretario ma di uno psichiatra».

Chissà se la pensa così Roberto Giachetti, l’estroso dirigente ex radicale che, per protestare contro le cene e soprattutto il ritardo del congresso, ha deciso di fare lo sciopero della fame. Già, il congresso: per ora non se ne sa nulla. Forse a marzo, forse ad aprile, chissà. Prima bisognerà fare le primarie, e anche le votazioni nei circoli secondo il barocco cerimoniale che il Pd ha costruito per decidere chi deve essere il suo capo. L’indecisione - a mesi di distanza dalla sconfitta - dipende dal fatto che Renzi non ha ancora trovato un proprio candidato segretario da contrapporre a Nicola Zingaretti, l’unico sceso ufficialmente in campo a nome dello schieramento, appunto, antirenziano: il centro di Dario Franceschini, la sinistra di Damiano, gli ex bersaniani, i cuperliani, e via smollicando le micro-correnti del partito. Pare che nessuno abbia voglia di correre coi colori dell’ex segretario: l’ex ministro Delrio, apprezzato uomo di pace, si è subito defilato; a Matteo Richetti, forse uno dei pochi che ha detto in faccia a Renzi quel che pensa di lui, l’idea piacerebbe ma non ha alcuna voglia di fare il pupazzo del boss. Dicono che in Emilia Romagna il governatore uscente Bonaccini potrebbe farci un pensiero ma l’interessato ufficialmente nega.

A parte questi esponenti di prima fila, si scende verso anonimi deputate e deputati di giovane età da esporre come simboli del «rinnovamento». Quel che è certo è che il congresso – che si farà quando Renzi sarà comodo – sarà l’ennesima conta tra il «senatore di Rignano» e la platea dei suoi nemici. Forse però questa volta l’esito potrebbe non essere scontato: il fatto che Matteo stia ancora al centro del campo con l’aria di chi comanda nei fatti ma non formalmente, è cosa che gli sta alienando parecchie simpatie. Anche perché così il Pd resta fermo nella palude senza andare né avanti né indietro: tant’è che litiga sulle cene. A consolare tutti c’è almeno una manifestazione da organizzare, il 30 a Roma, per suonare la carica contro il governo. A riscaldare il cuore e la passione dei militanti di base che dovrebbero correre da tutta Italia a manifestare la loro voglia di opposizione, ci pensano i tanti che propongono di sciogliere il partito perché tanto è vecchio e usurato, e ricominciare da capo. Con gli stessi capi e capetti, naturalmente, solo sotto una bandiera graficamente diversa che possa attrarre anche qualche fuoriuscito, cani sciolti, pezzi di vecchi partiti arenati e di nuovi partiti mai nati ma comunque zeppi di generali e colonnelli senza lavoro perché privi di una truppa da comandare. Sarebbe in quel caso la «Grande coalizione» contro sovranisti e populisti attualmente al governo con un grado di consenso che i sondaggisti stimano attorno al sessanta per cento dei voti.

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