Il Sinodo dei giovani
Non consigli e linee guida
ma «dilatare il cuore»

Bergoglio si è scusato con i giovani ieri mattina. Ma non perché i giovani sono stati marginati dalla Chiesa o utilizzati solo per lucidare una pastorale giovanile confezionata da adulti preoccupati di tenere il punto dell’organizzazione tra una Gmg e l’altra. E neppure si è scusato del fatto che spesso la Chiesa considera i giovani l’anello debole del sistema perché pongono dubbi, rivendicano, a volte squassano le certezze resistenti degli operatori del sacro e della cittadinanza religiosa. Niente affatto. Il Papa si è scusato per avervi «riempito le orecchie».

Le parole di Bergoglio e il documento prodotto dal Sinodo, che non è per nulla un elenco di desideri o di magheggi abbaglianti e più seducenti, ma un progetto dove si coglie l’ansia di una fedeltà più radicale al Vangelo valida per l’intera Chiesa, si collocano perfettamente nella scia di un pontificato che sta scardinando la paura di cambiare, aprendo processi e sbaragliando sicurezze.

Il testo è un altro tassello dell’opera a cui Bergoglio si è applicato fin dall’inizio con «Evangelii gaudium», passando per «Amoris laetitia» e per «Laudato si’» e cioè quella di frantumare la tentazione degli uomini di Chiesa di essere notabili del Vangelo invece che testimoni dell’amore. Ma il Papa non si lamenta, non indulge ad alcuna nostalgia, né si abbandona nel pensiero ad un senso di fallimento. Anzi fa capire che i fallimenti derivano proprio dall’aver «riempito le orecchie» e concentrato la fede in formulazioni dottrinali, organizzazione, cose da fare, esami di dottrina morale da superare in circoli chiusi per camminare poi nelle strade del mondo con la presunzione dei guardiani delle anime. Bergoglio invece chiede esattamente l’opposto: ascoltare prima di parlare. E dunque subordinare il ruolo e le «ricette pronte» che lo definiscono, alla pazienza dell’attrazione della Parola di Dio.

Il Sinodo chiuso ieri invita a ripensare l’insieme dell’agire pastorale della Chiesa, ma allo stesso tempo suona l’allarme sul pericolo di perdere la bussola della missione della Chiesa e non solo riguardo ai giovani. Era chiaro fin dall’inizio che il Sinodo sarebbe fallito se avesse prodotto una sorta di «catalogo dell’Ikea», secondo l’espressione di un vescovo francese, di sbalorditivi strumenti pastorali, un passepartout di etichette per programmi faraonici, orientamenti, percorsi con relativi uffici che alla fine perdono di vista l’essenziale. La trappola è stata scansata.

Il Sinodo non ha dispensato, per usare l’immagine proposta ieri da Francesco nell’omelia finale, «un’acquietante monetina» o «consigli» e neppure ha indicato linee guida di una spiritualità aggressiva più adeguata a questi tempi inquieti. Non ha fatto alcun richiamo alle autorità competenti sugli strumenti e sulle regole. Nel documento finale c’è un importante richiamo all’esame di coscienza, che serve non solo ad identificare i peccati, ma soprattutto a riconoscere l’opera di Dio nella nostra esistenza quotidiana e a come cercarlo.

La coscienza e non le regole, l’incontro e non la teoria, ha aggiunto ieri Bergoglio, spiegando che la fede che ha salvato Bartimeo, il cieco del Vangelo che intralciava la via a Gesù, «non stava nelle sue idee chiare su Dio, ma nel cercarlo».

La coscienza fa la differenza nella ricerca, perché aiuta a centrare l’obiettivo, a non fermarsi alle norme del catechismo, a superare gli idoli, anche quelli spirituali, ad allontanare lo schema della religione terapeutica, che porta solo all’impoverimento della fede. San Benedetto lo diceva così: «Dilatare il cuore». È quello che ha chiesto il Sinodo.

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