Il sistema pubblico
ripiegato su se stesso

Venerdì scorso si sono conclusi a Roma gli «Stati generali della pubblica amministrazione». Già la magniloquente autodefinizione dell’evento - voluto e organizzato da un’associazione di dirigenti pubblici - induce a qualche ragionevole sospetto sull’utilità dell’iniziativa. Non che non si debba parlare della qualità del nostro sistema amministrativo. Non che non si debba ragionare seriamente su come cercare di uscire dal buco nero dell’inefficienza degli apparati pubblici.

Le disfunzioni, le anomalie, gli sprechi sono talmente diffusi da meritare un’attenzione più articolata e attenta. D’altro canto, però, occorre prendere atto di due circostanze tra loro strettamente intrecciate. In primo luogo: quanto più si parla di migliorare la pubblica amministrazione, tanto meno si opera concretamente per agire sullo scadente funzionamento dei servizi pubblici (da quelli di erogazione, a quelli che riguardano i diritti delle persone). In secondo luogo: coloro che auspicano il cambiamento sono quasi sempre gli stessi che hanno contribuito all’affossamento etico e funzionale dell’amministrazione pubblica. In Italia è quasi un luogo comune definire la burocrazia lenta e sorda alle esigenze dei cittadini. Tutti i luoghi comuni, si sa, contengono un fondo di verità. Nello specifico, più che la verità, occorre cogliere le ragioni di una situazione di indubbia gravità della quale sono vittime i cittadini. Il fattore principale del dissesto burocratico sta nel «mostruoso connubio» (per usare un’espressione coniata nel XIX secolo per definire le vicende del governo del Paese) tra ingerenze politiche nella Pa e sudditanza degli alti funzionari nei riguardi dei politici. In una democrazia funzionante le alte burocrazie dovrebbero essere in grado di attuare gli indirizzi di governo, riuscendo, nel contempo, a mantenere la propria autonomia decisionale.

In Italia è avvenuto (e avviene) troppo spesso il contrario: funzionari che, da un lato, non riescono a dare soddisfacente attuazione alle scelte di governo e, dall’altro, omettono di rivendicare lo spazio di decisione che le leggi stesse garantiscono loro. Questo incrocio perverso si ripercuote, come una piaga biblica, sul funzionamento dei pubblici uffici. A pagarne le spese sono, da un lato, i cittadini e il sistema di impresa; dall’altro, i funzionari onesti e volenterosi. A subirne il danno maggiore è, però, il Paese nel suo complesso, condannato a una perenne inferiorità nei confronti degli Stati meglio funzionanti. Nel nostro sistema pubblico stanno andando evaporando due leve decisive per il suo funzionamento: i controlli e il principio di responsabilità. I primi sono stati progressivamente resi meno puntuali e incisivi. Scelta che avrebbe potuto, in via teorica, avere un senso soltanto se, a tutti i livelli, si fosse praticata l’etica della responsabilità. Al contrario, proprio quest’ultima si è quasi volatilizzata: nessuno pensa di essere responsabile di nulla, anche (se non soprattutto) ai vertici degli apparati pubblici.

In tale contesto le iniziative convegnistiche finiscono per diventare soltanto un triste elenco di propositi che rimarranno lettera morta o, peggio, uno spettrale palcoscenico sul quale si esibiscono molti degli artefici della crisi delle pubbliche amministrazioni. In questo intreccio di storture assortite spiccano le responsabilità dei sindacati del pubblico impiego.

A differenza che in altri settori del mondo del lavoro, a volte i sindacati hanno difeso a oltranza privilegi, hanno coperto atteggiamenti di lassismo e di inefficienza, hanno tollerato comportamenti contrari ai doveri di pubblico servizio. Ma, soprattutto, sono diventati non di rado luoghi di promozione individuale: comodi sgabelli per fare carriera.

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