Il voto in Germania
ci riguarda

Gentiloni, in un intervento dei giorni scorsi a New York, ha detto che «l’Europa deve acquisire una comprensione più accurata dei danni che avvengono quando l’austerità è l’unica bussola». Chissà se il premier, pur in eccellenti rapporti con la Merkel, intendeva riferirsi garbatamente alla Germania. Il voto di oggi ci coinvolge da vicino, perché tutto passa da Berlino: se il quarto mandato della Merkel è dato per scontato, molto dipenderà se verrà confermata la Grande coalizione con i socialdemocratici e, soprattutto,se l’inflessibile ministro delle Finanze, Schauble, rimarrà al suo posto.

Solitamente considerata una storia di successo, il meno peggio dei mondi possibili, anche la stabile Germania ha però qualche ombra: specie se l’estrema destra, che qui ha risvolti revanscisti e inquietanti, entrerà per la prima volta al Bundestag e con i galloni del terzo partito. Fosse così, le urne tedesche chiuderebbero il ciclo elettorale che, tra Olanda, Austria e Francia, ha visto la sconfitta dei populisti e il successo degli europeisti, senza però aver disarmato del tutto uno dei principali fattori critici dell’Europa. E cioè: Paese che vai, populista che trovi.

Le forze radicali hanno perso all’interno del perimetro Europa sì-Europa no, tuttavia hanno altre opzioni e restano comunque una presenza fissa nel panorama politico. Idee sbagliate, ma pur sempre di un certo successo elettorale: rappresentando, poi, un condizionamento verso gli esecutivi, possono vincere anche quando perdono. In questo quadro, archiviato l’esito elettorale in Germania, tocca all’Italia entrare nel faro continentale, quasi un osservato speciale. Un po’ perché continuiamo a trascinarci la zavorra del gigantesco debito pubblico. Un po’ perché, negli stereotipi radicati in certi ambienti del Nord Europa, la fascia Sud sarebbe popolata da scansafatiche. Ma soprattutto perché il nostro instabile sistema politico desta preoccupazione. Da tempo la condizione naturale, fisiologica, dell’Italia è vivere in una campagna elettorale senza soluzione di continuità. Il referendum costituzionale bocciato il 4 dicembre ha chiuso una maratona di 7-8 mesi. Poi è stato il turno delle Amministrative, quindi a ottobre c’è il referendum sull’autonomia in Lombardia e Veneto, a novembre il voto in Sicilia, a primavera del 2018 le Politiche e la corsa per la guida al Pirellone. Roba da stress. Il Pd, partito-sistema, oltre che diviso s’è smarrito. Lo stesso Renzi s’è fatto silenzioso. Con gli scissionisti non c’è il reciproco tentativo di un punto d’incontro. Nel centrodestra, dato dai sondaggi in gran spolvero, Berlusconi e Salvini non si pigliano proprio: prima o poi saranno condannati ad un qualcosa che assomigli ad un accordo, ma restano alternativi. L’ex Cavaliere, dopo aver radicalizzato nei suoi anni d’oro una parte dell’elettorato centrista, ha cambiato registro e si ripropone con il format del Partito popolare europeo pro Merkel. Il leader leghista va oltre la Padania, ha sì battuto in ritirata sull’uscita dall’euro, ma rimane asserragliato nella destra con la ruspa. Per una impietosa coincidenza di tempi, mentre i tedeschi decidono se ridare fiducia ad una statista, le primarie bulgare dei 5 Stelle (il movimento che sarebbe in testa nei sondaggi, o appaiato al Pd) premieranno Di Maio in quella recita che vorrebbe Grillo fare un passo indietro. Quel giovanotto che – nel giudizio di Carlo Freccero, intellettuale d’area ed esperto dei media – è l’uomo perfetto nel reality grillino, un software interscambiabile: «La sua forza è di non avere teorie. Lo dimostra come è facile per lui cambiare idea, dal referendum sull’euro allo Ius soli. Ma per questo è comprensibile per tutti».

Se si sommano, con qualche forzatura ideologica, i consensi ipotetici di Fratelli d’Italia, il fronte anti sistema raggiunge il dato virtuale di circa il 45%. Una massa critica senza uguali nei grandi Paesi europei e che, almeno nel caso dei grillini, non capitalizza perché fin qui non coalizzabile: la sua ipotetica forza elettorale non corrisponde al suo peso strategico. L’Italia si conferma laboratorio politico, non sempre virtuoso. Per la nuova legge elettorale ci stiamo avviando all’ultima chiamata nel caos creativo per non andare alle urne con le norme scritte dalla Corte costituzionale: davvero si riuscirà ad evitare il pasticcio dell’ingovernabilità? Possiamo rallegrarci per quel tanto di ripresa che c’è, ma per ottenere la giusta fiducia nel futuro serve che i dividendi della crescita si spalmino sull’occupazione, sugli investimenti e sui ceti medio-bassi. In attesa che il recupero economico entri nelle pareti domestiche delle famiglie, centrosinistra e centrodestra coltivano la stessa malattia: la febbre dell’autogol.

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