Iran, il successo Usa
e il rischio di guerra

Abbiamo davvero sfiorato una guerra tra Usa e Iran? E quanto è probabile che scoppi una simile guerra, che finirebbe col trascinare nel disastro buona parte del Medio Oriente? Sono queste le domande che si agitano nella testa di tutti, soprattutto dopo che Donald Trump si è intestato il doppio merito (tale è, almeno, agli occhi dell’opinione pubblica americana) di aver deciso un attacco armato e di averlo poi annullato. Facendo così la figura del presidente grintoso e capace di decisioni difficili e, insieme, quella dello statista umano e con il senso delle proporzioni.

Dopo quest’ultima «trumpata» si sono sprecate le dietrologie. Il Pentagono di qui, il segretario di Stato Pompeo di là, il falco Bolton di su... Tutto questo ha poco senso. Si deve infatti riconoscere che la strategia della Casa Bianca per il Medio Oriente (sia essa un parto di Trump o di altri) purtroppo funziona. Guardiamoci intorno.

L’asse Israele-Arabia Saudita è sempre più forte. Nessuno davvero contesta la guerra saudo-franco-americana nello Yemen. La Turchia è sotto pressione per i contatti con la Russia. Tra Siria e Iraq sono ancora presenti reparti Usa che dovrebbero essere integrati da inglesi, francesi e addirittura italiani. L’Europa è fuori da tutti i giochi. E nel frattempo le sanzioni stanno massacrando l’economia dell’Iran, dove la disoccupazione cresce, la valuta sprofonda (il rial ha perso due terzi del valore sui mercati non ufficiali), le esportazioni di petrolio sono già calate da 2,7 a 1,7 milioni di barili al giorno e continuano a ridursi. Proprio il successo dell’azione americana contro Teheran, però, costituisce oggi il maggior rischio di guerra. La strategia americana è chiara: portare il regime degli ayatollah alla disperazione, costringendoli ad arrendersi e ad accettare le condizioni-capestro degli Usa; oppure portare tutti gli iraniani alla disperazione, in sostanza affamandoli, per spingerli a un sollevamento contro gli ayatollah stessi. Strategia che agli Usa costa poco o nulla e che può essere prolungata all’infinito.

Però c’è un però. Tutto questo nasce dalla decisione di Trump di disdettare in modo unilaterale l’accordo sul nucleare siglato nel 2015 da Usa, Ue, Russia e Onu. Accordo che secondo gli Usa di Trump (affiancati da Israele e Arabia Saudita) l’Iran non rispettava. Mentre tutto il resto del mondo, a partire da Ue e Russia, sosteneva il contrario, e cioè che l’accordo funzionava e l’Iran ne rispettava le condizioni. In questo quadro, cioè all’interno di un sopruso di stampo coloniale e imperialista, ha senso credere di poter sfasciare un Paese senza che questi cerchi in qualche modo di reagire?

Ovviamente no. L’abbattimento del drone americano ha proprio questo significato. Con tale azione Teheran manda agli Usa un messaggio preciso: se volete farci morire per asfissia, sappiate che preferiamo farlo con le armi in pugno. E se è vero che la possente macchina da guerra americana (basi in 13 Paesi della regione con 54 mila soldati mobilitabili in pochi minuti) può travolgere qualunque ostacolo, è vero anche che le forze armate iraniane, e ancor più le milizie come i pasdaran, possono infliggere colpi dolorosi. Scenario che diventa ogni giorno più credibile anche perché il sopruso di cui sopra e le sue conseguenze stanno velocemente inabissando, in Iran, la credibilità dei moderati come il presidente Rouhani, mentre rafforza gli argomenti di coloro che negli Usa hanno visto sempre e solo il «grande Satana» e nel resto dell’Occidente un interlocutore comunque infido.

Ulteriore complicazione: il varo della campagna elettorale con cui Trump cerca la rielezione. Il presidente decisionista, quello di «America first!», può fare marcia indietro senza perdere pacchi di voti? Un grande pasticcio che può trasformarsi in un pasticcio sanguinoso, come fin troppo spesso accade quando gli americani decidono di occuparsi del Medio Oriente come se si trattasse dei Balcani.

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