Jobs act, legge
da preservare

In questa campagna elettorale in cui, anziché fare proposte nuove, si corre soprattutto a smontare e smantellare riforme precedenti, sarebbe buona cosa mettere in sicurezza almeno ciò che riguarda il lavoro, tema che dovrebbe mettere d’accordo tutti. Il passo indietro di Berlusconi sul jobs act (e in parallelo sulla Fornero da «abolire», tema prediletto del suo alleato leghista), si muove in questa direzione, forse memore del fatto che il voto contrario di Forza Italia fu dato perché si voleva di più. E allora: coraggio, si chieda di più, rifinanziandolo, magari estendendolo alla Pubblica amministrazione e dando attuazione più convinta della fase due, quella del sostegno attivo all’occupazione. In particolare sollecitando le Regioni, competenti in formazione, a fare la propria parte senza più sprechi.

Contro il jobs act resterebbero allora solo il no a prescindere 5 stelle e gli irriducibili di LeU, offesi perché non c’è più l’articolo 18, che in verità neppure i governi di centrodestra avevano osato toccare, residuo di un mondo che non c’è più, quello uscito dalle lotte sociali del 68, di cui si celebra il mezzo secolo.

Il punto debole di una legge che sarebbe stato meglio denominare in italiano senza imitazioni omabiane, si dice che sia l’incentivo alla precarizzazione, con la crescita dei contratti a tempo determinato. Ma le cifre non confortano questo assunto, che resta tutto acriticamente politico o di indole culturale, condizionato da una visione del mondo del lavoro molto datata, quella del posto fisso celebrato da Checco Zalone.

In realtà, su un milione e 139 mila nuovi posti di lavoro creati a partire dal 2014 fino al novembre scorso (con un totale passato da 22,2 a 23,2, record dal 1977), 659 mila sono per l’appunto a tempo determinato, ma 481 mila sono ancora a tempo indeterminato e la scommessa delle «tutele crescenti» punta a stabilizzarli ed estenderli. Il delta tra i due tipi di contratto coincide quasi del tutto con la diminuzione di lavoro autonomo (che ha perso 201 mila unità), quello sì molto fragile e talora solo nominale, migrato al dipendente nella ricerca di un miglioramento.

Dovrebbe pur aver avuto un effetto positivo una legge come questa, se la disoccupazione giovanile è scesa in poco tempo del 7,2% e quella totale del 4,2%. Troppo poco, e troppo a macchia d’olio, ma un cambiamento c’è. Non ci sembra uno sfracello sociale se dopo il jobs act i contratti a tempo sono il 12,5 del totale (prima erano il 10,1) e se, vigente l’art. 18, i posti fissi riguardavano l’86,5% dei lavoratori e oggi l’83,7. Il totalone degli occupati è ancora in stragrande maggioranza a favore dell’indeterminato (17,8 milioni), contro il determinato (2,9). Che in futuro questo rapporto possa stringersi è molto probabile, perché il mondo sta cambiando con una velocità impressionante, ma gli strumenti legislativi per gestire l’era dei robot e della realtà digitale cominciano a esserci. Possono essere migliorati e rafforzati ma non certo con gli argomenti retrò di Grasso (peraltro esperto di mafia, non di lavoro) o di alcuni settori della Cgil. Meglio puntare su quella che è forse la legge più innovativa della prolifica legislatura appena conclusa: l’industria 4.0 di Calenda. Sarà anche una visione di parte, ma il Presidente di Confindustria Boccia ha ricordato i fatti, e cioè che si deve a questa legge, in cui l’Italia ha anticipato il resto d’Europa, se l’anno scorso c’è stata una crescita del 30% di investimenti privati e del 7% di export. Sarà anche per questo che il «Piano industriale per l’Italia delle competenze» è firmato congiuntamente da Marco Bentivogli, Fim Cisl, e Carlo Calenda? In quel piano ci sono 400 milioni in più per gli Istituti tecnici, che oggi sfornano 9.000 diplomati contro gli 800 mila della Germania, molto richiesti dal mercato del lavoro.

Facendo parte della categoria dei realisti che pensano che il lavoro si crea con gli investimenti delle imprese e comunque non per decreto o applicando i meccanismi rigidi (peraltro pochissimo usati) dell’art. 18, queste ci sembrano buone notizie, sufficienti a chiedere che in campagna elettorale qualcuno si ricordi di salvare il soldato jobs act.

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