La Brexit non conta
Il muro si fa insieme

Non è il primo muro che l’Europa alza per cercare di frenare questa epocale onda migratoria che da qualche anno l’ha scelta come meta. Ma quello che si sta costruendo a Calais, in territorio francese ma di fatto territorio proiettato verso la Gran Bretagna, ha un peso e un significato diversi. differenza degli altri infatti non sorge ai confini del continente (come quelli che hanno bloccato la via balcanica) ma sorge nel cuore del continente. In secondo luogo non ha come promotori Stati alle prese con una grande povertà interna e addirittura con un’emigrazione in uscita, come la Romania, ma due Stati ricchi, simboli di benessere e di libertà. A Calais un muro esisteva già, voluto sempre dai britannici nel 2014, per proteggere le strutture del porto dall’assalto dei migranti. Un muro di rete, alto 4 metri e coronato da filo spinato. Alla base di quella prima barriera è sorta la cosiddetta Giungla, la baraccopoli dove i migranti alloggiano nell’attesa di trovare il modo di nascondersi in qualche camion e arrivare sull’altra sponda della Manica.

Ma secondo le autorità inglesi quel muro, già ribattezzato «muro della vergogna», per essere efficace doveva essere allungato di un chilometro. Così hanno stanziato i fondi (circa 3,2 milioni di euro) e hanno convinto le autorità francesi a iniziare i lavori. Rispetto al muro esistente però c’è una differenza: questo sarà tutto in muratura con un sistema anti attraversamento sul modello studiato dalla Nato, con vegetazione all’interno e invece del tutto liscio all’esterno per impedire ai migranti di arrampicarsi. Insomma un muro vero e proprio, non una semplice struttura facilmente smantellabile.

Dal punto di vista simbolico l’ombra gettata da questo muro sarà certamente superiore alla sua efficacia. È infatti un muro che sancisce una doppia sconfitta, sia politica che culturale e che, per di più, viene avversato da tutti, sia dalle associazioni che stanno assistendo i migranti, sia dai camionisti esasperati per la situazione, che lo ritengono del tutto inutile. Del resto è difficile pensare che un muro, per quanto minaccioso, possa frenare una persona arrivata sino a Calais attraversando situazioni ben più pericolose, dai deserti al Mediterraneo, solcato su barche del tutto improbabili.

Dal canto loro i francesi si espongono ad una situazione doppiamente problematica: da una parte costruiscono – loro, il Paese della libertà! – un muro sul proprio territorio (e questa è la sconfitta culturale); dall’altra restano con il cerino in mano, dovendo trovare una soluzione a quelle migliaia di migranti (la sconfitta politica). Il governo ha annunciato di voler trasferire il campo alle porte di Parigi, dove sarebbe già in avanzata fase di allestimento. Ma è una misura che se attuata vanificherebbe l’ipotetica funzione del muro…

A Calais ci sono circa 7 mila persone, come detto. Non 700 mila. La drammaticità della loro condizione ha certamente qualcosa quasi di apocalittico, se si guardano le foto della Giungla. Tuttavia la dimensione del fenomeno che li riguarda è una dimensione che poteva, altrettanto certamente, essere affrontata in modo più civile e con maggiore efficacia. L’enormità di soldi spesi per rafforzare la sicurezza (il primo muro, molto più lungo dell’attuale, con tutte le strutture connesse era costato ben 15 milioni di euro) avrebbero potuto essere usati per organizzare l’accoglienza, e l’eventuale accompagnamento di chi poteva vantare diritti per andare in Gran Bretagna. Non sarebbe stato certamente un percorso facile, ma sarebbe stato certamente un percorso da Paesi «civili».

Invece è molto triste constatare che all’indomani della Brexit la sola cooperazione che non viene messa in discussione è quella per erigere un muro.

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