La città, il lavoro
e la svolta digitale

Alcuni giorni fa , il nostro giovane premier ha affermato che «il posto fisso non c’è più». Su questa frase, che evidenzia una situazione che conosciamo e l’uscita dalla occupazione di massa che ha caratterizzato la società industriale, si è sviluppata una polemica che si è però concentrata sull’aggettivo «fisso», lasciando in sottordine il tema della scomparsa di posti. Non bisogna essere valenti economisti o analisti specializzati per vedere come oggi e soprattutto nel prossimo futuro, intere categorie di lavoro, da quelle subordinate a quelle professionali, hanno le stesse prospettive di sopravvivenza dei vecchi e simpatici dinosauri.

Di questa prospettiva si discute molto poco, presi da un dibattito che ha fatto della questione del lavoro l’elemento di un confronto politico che sfugge alle vere questioni del prossimo futuro. Affidare tutta la questione dell’occupazione e del lavoro solo al Jobs act che, se valutato con realismo, mostra un intreccio di ombre e luci ma anche qualche elemento positivi e innovativo, è una operazione che può essere mediaticamente interessate, ma che sul piano pratico è avventata. C’è il rischio che preservi una visione congiunturale dei problemi legata ad un modello che sta inesorabilmente declinando.

Nel parlare di lavoro si dovrebbe sempre tenere presente che ciò che aggrava la situazione italiana non è solo il tasso di disoccupazione al 12,6% ( molto vicino a quello dell’eurozona all’11,7%) , ma che questo viene accentuato da un tasso di occupazione (occupati su popolazione in età da lavoro),che è di 8 punti inferiore a quello dell´eurozona( 59,8% rispetto al 67,7), il che significa che all´Italia mancano più di 3 milioni di occupati per essere nella media europea, e se vogliamo fare come in Germania, come ha dichiarato il nostro presidente del Consiglio, ci servono almeno 7 milioni di occupati in più.

Se a tutto questo aggiungiamo gli effetti che la rivoluzione tecnologica in corso produrrà non possiamo stare allegri. Studiosi come Carl Benedikt Frey e Michael Osborne dell’Università di Oxford, in uno studio sull’impatto delle nuove tecnologie, ci dicono che il 47% dei lavori che conosciamo svanirà nei prossimi due decenni. Può essere un dato non preciso, da prendere con le pinze e da sottoporre alle dinamiche reali dell’evoluzione economica, ma che comunque non deve lasciarci indifferenti.

La storia delle società a forte industrializzazione ha dimostrato che il progresso tecnologico nel creare ricchezza causa grandi scompigli sociali. L’utilizzo delle nuove tecnologie aumenta la produttività e, nello stesso tempo, produce cambiamenti strutturali sulla struttura occupazionale e incide sulla composizione sociale. Si sostiene, con qualche ragione, che la tecnologia, nell’aumentare produttività e profitti, produce un aumento della domanda e fa nascere la necessità di nuovi posti di lavoro in nuovi settori, ma basterà per dare a tutte le persone delle opportunità?

Sono convinto che la politica italiana ed europea, il sindacato e pure gli imprenditori devono cercare di anticipare, conoscere e valutare questi cambiamenti non solo sul versante di produttività, ricchezza, efficienza e competitività, ma anche su quanto possono produrre riguardo la dimensione sociale e la vita di persone e famiglie. La questione del lavoro non è più solo questione di regole, ma di prospettiva e di modello sociale: richiede una decostruzione delle nostre culture sindacali, economiche, politiche e sociali, per arrivare al nucleo dei problemi da affrontare e a quale umanesimo tendiamo.

È in virtù di quest’ultima considerazione penso ci sia un altro soggetto che oggi su queste questioni può giocare un grande ruolo, ed è la città intesa come espressione di un territorio e non solo di un singolo Comune. Bisogna che le città (anche Bergamo) si attrezzino per la affrontare positivamente la rivoluzione tecnologica che non entrerà solo nelle fabbriche e nei servizi, ma che investirà la vita delle persone, le relazioni , le forme della cura e del vivere insieme. I territori, per generare o conservare dentro i cambiamenti un livello di vita personale e sociale decente, hanno bisogno di promuovere investimenti in competenze utili ad attrarre nuove industrie e nuove attività, consentire ai lavoratori di spostarsi in occupazioni che a malapena esistevano solo cinque anni fa. Bisogna che i luoghi che abitiamo – di cui conserviamo tradizioni, cultura e valori – siano adattati alla rivoluzione digitale, senza con questo perdere la loro specificità.

Le città che investono nella creazione di forza lavoro competente rimarranno resilienti ai cambiamenti tecnologici e quindi potranno concentrarsi – in cooperazione con il sistema formativo, sociale e religioso – sulla promozione di persone tecnicamente e moralmente qualificate, incoraggiando l’assunzione di rischi imprenditoriali in nuove forme di economia sociale e civile. Inoltre, le politiche di immigrazione devono essere rese attraenti e accoglienti non solo per chi cerca di sfuggire alla guerra, alle persecuzioni e alla povertà, ma anche per le persone altamente qualificate e per nuovi imprenditori. Sarà la qualità del dinamismo tecnologico, del sentire solidale e sociale presente nel territorio, ad attrarre talenti e competenze e a salvaguardare un tessuto sociale e culturale.

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