La classe operaia
s’è fatta invisibile

La classe operaia s’è smarrita anche nella testa dei politici. Non se ne parla, s’è fatta invisibile. Si discute di Jobs act, senza specifici riferimenti identitari. I pensionati sono molto contesi, in quanto garanzia di continuità. Si gioca sulla fascia mediana per catturare l’universo indefinito del ceto medio uscito con le ossa rotte dalla Grande crisi. Le partite Iva, categoria a sé, dopo aver fatto la fortuna del forzaleghismo, esistono ancora eccome, ma paiono senza voce e non più in cima all’agenda politica. L’Italia tripolare ha rimesso in discussione i blocchi sociali della Seconda Repubblica attraverso scomposizione e ricomposizione su nuove linee.

Che le tute blu abbiano girato le spalle al centrosinistra e al riformismo cattolico-democratico è ormai un dato di lunga durata.È così ovunque. Gli operai bianchi americani hanno votato in massa per Trump e, con l’attuale riforma fiscale, avranno modo di pentirsene. Da noi i più se ne sono accorti nel ’96 quando un’inchiesta della Cgil Lombardia indicava nella Lega il primo partito fra gli operai (33%, Rifondazione al 10,4%). In questa redistribuzione restano fedeli alla casa madre i chimici, tradizionalmente riformisti, mentre l’abbandono riguarda soprattutto i siderurgici e gli edili.

Il voto oggi, nella composizione sociale, è radicalmente cambiato rispetto alle europee del 2014 quando il Pd pigliatutto pescò in ogni categoria professionale e anagrafica. I sondaggi Ipsos di Nando Pagnoncelli rileggono questa frantumazione affluente. Tra operai e lavoratori esecutivi i grillini ottengono il consenso più elevato superando il 40%, la Lega ha un risultato superiore alla media (20%), mentre Pd e sinistra sono in sofferenza. I ceti medi (impiegati e insegnanti) e autonomi (artigiani e commercianti) propendono nettamente per i 5 Stelle: tra i primi Forza Italia è in difficoltà, tra i secondi la Lega ha un buon andamento. Tra i pensionati, Pd e Fi volano sopra la media, mentre grillini e leghisti sono sotto. La casalinga di Voghera, celebre prototipo delle donne di casa italiane, resta fedele a Berlusconi che tuttavia nelle pareti domestiche è secondo dopo i 5 Stelle.

Fino a qualche tempo fa vigeva la logica del «dimmi che lavoro fai, ti dirò di quale partito sei» e oggi, complice anche la doppia recessione, è saltata pure questa legge fisica. In questo grande spariglio e aspettando l’impatto dei robot, il prisma storico delle classi sociali appare troppo semplicistico e tramonta lo stesso concetto di classe, cioè la consapevolezza di far parte di una comunità di valori. L’affievolirsi della grande fabbrica (l’addio al fordismo) ha modificato il paesaggio urbano e delle relazioni umane, mentre il capitalismo molecolare ha spinto il protagonismo dei mezzadri-operai fattisi padroncini nel Nordest. Se fra capitale e lavoro non c’è più il muro, efficientismo, competizione e flessibilità hanno dissolto reti di solidarietà e la capacità di costruire raggruppamenti stabili, lasciando però anche briglia sciolta all’autonomia e al rischio individuali. La cultura industriale dell’Italia delle fabbriche parla un’altra lingua. Il vecchio ordine sociale iniettava stabilità nella «gabbia d’acciaio» esigendo obbedienza e lealtà dal lavoratore, l’attuale dispersione dei mestieri a tempo produce insicurezza ma anche più libertà e identità sfumate. Oggi è così, domani chissà: un futuro meno prevedibile. Ne deriva uno scenario nel quale la dimensione del consumo, del cittadino consumatore, diventa prioritaria rispetto a tutte le altre, originando stili di vita instabili e altamente differenziati attorno ai quali si aggregano persone anche di condizione economica diversa. Lo stesso operaio è sempre meno tuta blu e sempre più consumatore al pari degli altri: per certi aspetti, dismettendo l’abito ideologico, s’è laicizzato. Non contano solo le ferite delle disuguaglianze, ma il modo in cui sono vissute e utilizzate nella vita quotidiana. Alla politica si chiede forse troppo, cioè di organizzare il caos nato da una nuova concezione del lavoro e da un edificio minato dalle trasformazioni che scalzano la centralità della produzione industriale. Paiono avere più margini i pur strapazzati corpi intermedi, sindacati e associazioni, l’ultima trincea dello stare insieme: purché accettino la sfida di mettersi in gioco e di essere parte del cambiamento.

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