La follia dell’uomo
e i topi di Camus

«Un uomo correva imbracciando un kalashnikov e sparava». La donna piange mentre parla ad Antenne 2, la telecamera mostra il deserto di Place de la République. A Parigi, in un anonimo venerdì sera, è di nuovo scesa la notte. Il terrorismo ha colpito con scientifica premeditazione: tre attentati in tre punti diversi della metropoli, raffiche di mitra in sei vie, bombe con polvere da sparo e chiodi per ottenere il massimo risultato, esplosioni vicino allo Stade de France, nell’irrequieto quartiere di Saint Denis, dove cinquantamila persone stavano assistendo alla partita Francia-Germania.

Tutto questo avrebbe provocato sessanta morti (alla conta di mezzanotte). E almeno cento ostaggi in un teatro gremito di persone, il famoso Bataclan che si trova nell’undicesimo arrondissement, lo stesso della redazione di Charlie Hebdo.

Una coltellata alla schiena dell’Europa. Nove mesi dopo gli attentati islamici, dall’uovo del serpente è uscito ancora terrore. Ancora sangue, ancora lutti, ancora follia. Una strage immane, vengono i brividi nell’ascoltare i primi testimoni che gridano tutta la loro disperazione e la loro rabbia nella lingua di Voltaire. La città dei Lumi è spenta, nel caos qualcuno ha sentito gridare «Allah è grande». È troppo presto per tutto, ma la mente finisce lì, a una replica dell’Isis. A un’ulteriore dimostrazione di potenza sanguinaria nei confronti di un’Europa che tesse le fila del negoziato, nella giusta distinzione tra fondamentalisti e moderati. «Siamo riusciti a fuggire, è stato un miracolo. Tiravano con i fucili a pompa sulla folla», racconta un testimone scappato dalla trappola del teatro Bataclan. Forse è troppo presto per tutto tranne che per l’orrore e la pietà. Certamente si può dire che l’attacco è stato pianificato nei minimi dettagli, che le esplosioni contemporanee dimostrano l’esistenza di numerosi commando pronti a colpire a un segnale convenuto.

Due giorni fa un pacco bomba a Lione e dispacci d’inquietudine dei servizi segreti americani e inglesi sembravano anticipare un evento straordinario. In codice si parlava di Francia nuovamente sotto attacco. Ma nessuno avrebbe immaginato scenari da film catastrofico, flash anche soltanto evocati di una enorme strage continua. Mentre scriviamo si parla di una nuova sparatoria alle Halles, nella zona del Beaubourg di Renzo Piano. Quante volte abbiamo passeggiato, abbiamo fotografato, abbiamo comprato una baguette, abbiamo respirato il profumo di una città libera e vitale?

La notte di Parigi e della ragione è un controsenso, ma con questa realtà assurda bisogna fare i conti. E l’immagine del presidente Hollande scortato fuori dallo Stade de France mentre le esplosioni riescono a superare in decibel perfino il tifo, è quella di un Paese che ha paura, che si ritrova inerme e spaesato davanti a belve feroci assetate di sangue. Scriviamo e guardiamo la tv, è un film dell’orrore quello che abbiamo davanti. È troppo presto per tutto, ma non per sollecitare una strategia comune nei confronti del terrore. Per auspicare una presa di posizione unanime, forte, in linea con la storia di paesi che portano nei loro cromosomi i valori dell’Occidente. Un popolo che si rispetti deve saper dialogare, ma anche sapersi difendere. In questo momento ci sentiamo di urlare: siamo tutti francesi. Lo siamo mentre i terroristi si aggirano ancora nelle strade di Parigi. Lo ripetiamo ricordando le parole di Albert Camus, quelle che concludono il suo capolavoro: «Per sventura o insegnamento agli uomini la Peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice».

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