La grande solitudine
di fronte alla morte

La malattia di Sergio Marchionne è un evento di straordinaria importanza. Non solo per il personaggio, ma anche per il modo con cui se ne parla. O non se ne parla. Intanto è ampiamente misteriosa la malattia. I pochi giornali che hanno affrontato il tema, hanno parlato di una operazione alla spalla. Ma è strano che si arrivi in fin di vita per una operazione alla spalla. Qualcuno, invece, ha parlato di un tumore al polmone, che è cosa molto diversa. Si conferma un dato semplice, banale della nostra cultura: la malattia e, soprattutto, la morte non sono oggetti che ci appassionano. Si preferisce non parlarne. E, quando si è costretti a parlarne, se ne parla di sbieco.

Di fronte al silenzio sulle cause della malattia sta il gran parlare che si è fatto del personaggio, di quello che ha significato per la Fiat, l’industria automobilistica mondiale, l’economia. È inevitabile. Si è obbligati, infatti, a parlare di un protagonista così importante. In fondo, quello che ha fatto Marchionne ha toccato, più o meno direttamente, tutti e tutti «devono» parlare di lui. Ma questa necessità rende inevitabile anche un contrasto. Lo straordinario attivismo del manager globale si ferma di fronte a una spalla o a un polmone che non funziona più, alla morte. Proprio perché Marchionne ha fatto moltissimo diventa intollerabile che non possa fare più niente.

In effetti, il molto che si è detto in questi giorni riguarda più l’auto, la Fca e l’industria che non Marchionne. Abbiamo letto più volte, in diversi organi di informazione, notizie del genere: «Fca, aggravate le condizioni di Marchionne». È l’azienda che rende necessaria la notizia della salute del manager. L’uomo Marchionne, le sue sofferenze, la sua morte, difatti, sono scivolate sullo sfondo dell’informazione. Forse è eccessivamente drastico, ma il modo di dare le notizie dice che, alla fine, interessa poco Marchionne, interessa molto l’auto. Anche la fulminea sostituzione di Marchionne da parte dei nuovi manager obbedisce alla stessa logica. È necessario farlo, perché Fca ne ha bisogno, ma la necessità denuncia una cultura dove i drammi privati vengono sacrificati ai bisogni pubblici.

Gli estremi di questa logica sono gli sberleffi che Internet ha esibito, anche stavolta, indecorosamente. La rete è diventata la sfiatatoio di tutte le rabbie. I social sono ormai assai poco il social. E anche nei riguardi della rete, la malattia di Marchionne ha fatto da cartina al tornasole. Si usa la rete per negare i legami. È un paradosso, ma è così. A questa deriva ha prestato il suo prestigio il Manifesto che, nella pagina di ieri, titolava «E così Fiat». La battuta giornalistica ad effetto è diventata più importante della serietà della notizia e del rispetto. I grandi contestatori sono diventati borghesi. Doppiamente borghesi: perché banalizzano la morte, come tutti i borghesi che si rispettano, e perché sbeffeggiano il potente che sta morendo, come fanno tutti i rampanti della rete.

Dopo aver parlato di quello che ha fatto Marchionne, invariabilmente, si è parlato, su tutti i toni, del futuro dell’auto. E il futuro di Marchionne? Di questo, ovviamente, non si parla. Il futuro di Marchionne, infatti, non interessa all’auto. E viceversa, anche. A che cosa serve infatti il futuro dell’auto per dire qualcosa sul futuro di Marchionne? Se a qualcosa si vuole dire del futuro di Marchionne lo si delega a qualche vago discorso personale. A nessuno è proibito di parlare di vita eterna di fronte alla morte di un uomo. Ma è affare suo, non è affare nostro. Questo è uno dei grandi limiti della cultura che ci tocca respirare. Di fronte alle grandi provocazioni della vita e della morte si è soli, anche quando si è stati, per quattordici anni, alla guida di un multinazionale dell’auto.

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