La jihad attacca un paese
strategico, i nuovi obiettivi

Il Sinai è un punto strategico e sta diventando di nuovo cruciale nelle geopolitiche instabili del Grande Medio Oriente. L’attentato di ieri alla moschea nel Nord della penisola è solo la conferma della centralità assoluta di un teatro che sta diventando il nuovo campo di battaglia interno all’Islam e insieme l’ennesimo ossessivo segnale d’allarme al Cairo. Tutto dentro un quadro sempre più complesso in Medio Oriente dove la questione siriana e la sua almeno parziale conclusione con la sconfitta dei miliziani del Califfato dei tagliagole ha prodotto per ora solo un rimescolamento inquietante e pericoloso di tutte le carte.

C’è il Libano che traballa, l’ultimo gioco delle alleanze imposte dal nuovo principe ereditario saudita, la sfida all’Iran, la guerra dimenticata dello Yemen, il riaccendersi del fronte interno iracheno e poi le ombre proiettate verso il Nord-Africa e il serbatoio libico, incubo politico e militare di tutti i guai dei vicini. L’Egitto è lo Stato più popoloso del Grande Medio Oriente e una sua coerente stabilità potrebbe costituire un freno alle strategie avventate soprattutto di Riyad. È una potenza sunnita, al Cairo si trova il più autorevole centro di cultura religiosa islamica con l’Università di Al-Azhar e lì da qualche tempo si sta tentando faticosamente di elaborare una exit-strategy al fondamentalismo jihadista di varia matrice. Ma il Cairo del generale Al Sisi è tutt’altro che un luogo tranquillo e una sua ulteriore destabilizzazione favorisce il caos dentro al quale tutti in Medio Oriente sono ben abituati a navigare con successo. L’attentato di ieri con il suo numero impressionante di morti è dunque in primo luogo un segnale chiaro ad Al Sisi, anzi è un attacco al suo governo, che viene dall’opposizione islamica interna, rafforzata dalla penetrazione in armi ed ideologia di uomini dello Stato islamico in fuga da est dalla Siria e da ovest dalla Libia.

Il Sinai è diventato ormai un crocevia di terroristi, solo in minima parte provenienti dall’Egitto. Ed è una regione fondamentale per tutti, con la frontiera di Israele da un lato, la Striscia di Gaza, il Canale di Suez, il Golfo di Aqaba, da cui si raggiunge direttamente la Giordania e l’Arabia Saudita. E non lo è da adesso, ma da sempre e da sempre il Sinai è stato occasione e perimetro geografico di conflitti. Insomma tutti devono fare i conti con il Cairo in Medio Oriente e nella Comunità internazionale, perché sono le sue coste quelle più minacciose per l’Europa nel caso di un nuovo conflitto mediorientale che dal Libano può innescare come una miccia i vari focolai che covano sotto le sabbie. La strategia del califfo Abu Bakr al-Baghdadi, primula nera dell’orrore, conosce bene tutti i promettenti incubatori di caos su quelle rotte. I suoi uomini cercano rifugio e contaminano i territori, missionari della jihad scaltri e competenti, favoriti dallo sfilacciamento delle società arabe e dai loro padri padroni.

E il Sinai è tra i territori il più attraente per conformazione geografica, posizione geopolitica e contesto storico culturale e religioso con tre religioni a calpestarlo. Non è un caso che ieri si sia colpita una moschea sufi, orientamento mistico moderato particolarmente diffuso in quell’area, considerato un’apostasia dell’Islam dai duri guardiani non solo del Califfato, ma anche di Al-Qaida. A complicare il quadro c’è la povertà di una penisola, tenuta sempre ai margini dell’economia egiziana, dove le tribù beduine sognano l’indipendenza e sono pronte ad allearsi con chiunque promette una mano alla loro ribellione antigovernativa.

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