La lezione di Francesco
alla capitale morale

La lezione di Milano sta tutta in una riga: «Non abbiate paura di abbracciare i confini». Ma sbaglia chi crede sia solo un’indicazione di metodo e uno strumento per allargare il perimetro della Chiesa in un tempo di dimissioni anche dei cristiani. Francesco con quella riga, che in realtà racchiude tutto il senso del Pontificato, ha posto ieri di nuovo la questione di Dio. Anzi l’ha riaperta come fa praticamente ogni giorno. Abbracciare i confini è la chiave del cristianesimo e non la misura della sua costruzione secondo teoria e prassi. Abbracciare i confini è la capacità di leggere in profondità gli eventi della storia e stare vicino ad una umanità fragile, spesso disperata e tradita da falsi messianismi, che qualcuno intende virtuosi solo perché efficienti in punta di denaro o di diritto, ma che in realtà lasciano una scia drammatica di scarti.

Abbracciare i confini è l’unico modo per restituire al mondo la speranza e rendere migliore la terra. Il fatto che Francesco sia andato a ripeterlo in quella che orgogliosamente si è considerata la capitale morale del Paese, cassaforte dell’economia e di ogni ambizione, assume un significato che deve far riflettere, perché forse le cose non stanno così.

Bergoglio non ha lusingato, non ha coccolato, non ha mitigato. Ha imposto anche a Milano di fare i conti con la misura obbligatoria della fedeltà al Vangelo, come va facendo con tutti sul duplice versante della misericordia, che comporta amore a Dio e amore agli uomini, passione per la storia di una Chiesa che ci sta dentro, ci cammina insieme, la illumina anzi diviene lume per le genti.

Le prime parole alle Case Bianche su una Chiesa anch’essa bisognosa di «restauri», come ogni luogo dove abitano gli uomini, confermano che Bergoglio non intende fermarsi nemmeno per un giorno a richiamare la necessità di vincere mille resistenze, mille contraddizioni, mille possibili equivoci e controversie che molti gli gettano tra i piedi nell’illusione di farlo inciampare.

Anche la missione milanese si è inserita nel flusso del suo Pontificato. Non ha segnato un nuovo punto di (ri)partenza, non è servita a (ri)cucire la trama del rapporto, che qualcuno ritiene sfilacciato, tra i vescovi italiani con il Papa. Non ha avuto lo scopo di smussare resistenze in vista del cambio al vertice della Cei. Né si è trattato di una riconciliazione con il suo presunto competitor al Conclave di quattro anni fa. Francesco è andato a Milano a segnare un’altra tappa di un Pontificato che apre processi e non marcia attraverso «stop and go» rabberciati ed estemporanei.

Nella lezione di Milano Francesco è riuscito mirabilmente a riassumere il suo sussidiario, quello a cui ci ha abituato parlando dappertutto, quello che si porta sottobraccio in un cammino che forse nemmeno lui ha ben chiaro, se non per il fatto che è l’unico cammino previsto dal Vangelo. L’unica novità sta nella quotidianità normale delle sue parole.

Non deve stupire il ragionamento sulle sfide che ha proposto in Duomo. Ha detto che una fede che teme le sfide è fasulla, perché si auto-compiace della sua fissa sacralità, è chiusa a doppia mandata, ideologica e perfino inutile. Invece cruciale è il discernimento, che permette di capire quanto sale e quanto lievito mettere nella pasta. Sono ingredienti che non hanno bisogno di grandi numeri. A Bergoglio piace la «minorità», ma minore come Francesco ,cioè in grado di aprire processi decisivi. A Milano ha spiegato essere quelli che cominciano con «multi», multietnico, multiculturale, parole oggi controverse in città del rancore da cui nemmeno Milano è immune. Ha 100 mila cittadini di fede musulmana, ma nemmeno una moschea per loro, caso unico in una grande metropoli europea. Ha una consigliera comunale che va a Palazzo Marino con il velo, ma viene dileggiata.

Ieri Bergoglio ha spiegato che non basta ripetere il solito ritornello sull’integrazione delle differenze. Bisogna spingersi un po’ più in là e non «speculare sul lavoro, sulla famiglia, sui poveri, sui migranti, sui giovani». Speculare non vuol dire solo cercare di ottenere vantaggi personali con mezzi illeciti o approfittare dei beni di tutti attraverso «sregolate ambizioni». Speculare vuol dire anche aspettare che «smetta di piovere», magari al riparo del mito ormai molto vago della capitale morale, invece che accettare la sfida di abbracciare ogni frontiera.

© RIPRODUZIONE RISERVATA