La pace nucleare
Vittoria della Cina

Ancora non hanno spostato indietro le lancette. L’orologio dell’apocalisse continua a segnare due minuti alla mezzanotte, ma ci consola il fatto che lì restano inchiodate. Gli scienziati americani che hanno inventato questo orologio virtuale, misura della paura e della follia, stanno verificando se davvero l’annuncio di Kim Jong-un di mettere fine ai test nucleari e di chiudere il sito atomico è una svolta storica per riportare il mondo indietro nella distanza che manca alla fine.

La pace è sempre un enigma nella penisola coreana. L’anno scorso le tensioni geopolitiche hanno subito una brusca accelerazione, fino all’annuncio trionfale del «caro leader» dei suoi successi. Sei mesi dopo l’avviso altrettanto trionfante della missione è compiuta con la Corea del Nord diventata una potenza nucleare. L’uso politico dell’annuncio che ha fatto tirare un sospiro di sollievo è un capolavoro di propaganda dell’ultimo leader veramente comunista del pianeta.

Ha alzato la tensione fino a toccare le stelle e poi con un susseguirsi di eventi tumultuosi e in un contrappunto di scetticismo e di speranza ha giocato su un sottilissimo crinale, sul quale sono saliti molti protagonisti e non solo i duellanti Kim e Trump, che si sono sfidati coprendosi di insulti e prendendosi a schiaffi con sonore minacce drammatiche per il mondo intero. Ma davvero la svolta si deve alle doti, finora sconosciute, di abile stratega del numero uno di Pyongyang e alla fermezza dell’inquilino della Casa Bianca, il «Comandante in capo» che mai è arretrato?

In realtà la sfida impossibile sui missili nucleari e i timori sapientemente innescati di una eventuale guerra imminente sono state uno strumento che è servito ad altri per giocare un ruolo e porsi al centro della soluzione. Uno di essi è Moon Jae-in, il presidente della Corea del Sud, avvocato difensore dei diritti umani, figlio di un profugo nord-coreano, membro del Partito democratico, capo di gabinetto dell’allora presidente Roh, che incontrò il padre dell’attuale leader nord-coreano nel 2007 e che ha vinto le elezioni nel 2017 senza dissimulare nel suo programma il dialogo con la Corea del Nord.

L’altro è il nuovo imperatore cinese Xi Jinping, fresco di nomina a vita certificata dall’Assemblea del popolo. Il primo ha sapientemente saputo abbracciare Pyongyang sotto un’inedita bandiera olimpica dove una Corea azzurra non era trafitta dal 38esimo parallelo. Il secondo ha abilmente mosso le sue carte, assicurando il «caro leader» convocato a Pechino, lui che mai era uscito dalla sua fortezza, e nel contempo imponendo al riottoso americano una riedizione della politica del ping-pong. Sono loro i veri vincitori del primo tempo di una partita, che va ben al di là della retorica nucleare.

Ora si gioca tutto il resto, assai più importante sul piano politico e simbolico. Tra tre giorni il summit tra i leader delle due Coree, il terzo dall’armistizio del 1953, potrebbe porre le basi per la firma di un trattato di pace mai finora concordato tra le due capitali e avviare così il processo di riunificazione. Poi, forse tra un mese, lo storico vertice tra Kim e Trump, capolavoro diplomatico del Paese che per sessant’anni ha sostenuto la Corea del Nord e non ha alcuna intenzione di farsi da parte, ma intende continuare a dettare le regole del gioco in Asia, nonostante Trump e le sue sanzioni. Sul piano simbolico la vittoria di Pechino sarà assoluta. Le chiavi della distensione più evocativa dopo Cuba e il Muro di Berlino sono saldamente nelle mani dell’ultima guardia rossa di piazza Tienanmen, cosi come la pallina bianca del gioco che piace ai cinesi più che agli americani.

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