La pancia degli Stati
Il caos del mondo

Crisi è quel momento in cui il vecchio muore ed il nuovo stenta a nascere. La definizione è di Antonio Gramsci. Pronunciata quasi un secolo fa, definisce perfettamente la nostra epoca, sospesa tra un passato sepolto e un presente orfano di certezze. L’ordine mondiale della Guerra fredda ci ha lasciato in eredità più libertà ma anche un’anarchia geopolitica contrassegnata da conflitti e da appetiti finanziari ed economici sregolati. Dopo la caduta del Muro di Berlino, la globalizzazione non ha più avuto ostacoli sulla sua strada. L’ex premier Enrico Letta ha definito l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti «la più grande rottura politica dalla caduta del Muro».

Un’osservazione acuta, nel mare di banalità a commento del voto americano. C’è qualcosa di stantio, di noiosamente ripetitivo in certe constatazioni. A cominciare dall’autocritica delle élite politiche tradizionali e dell’informazione. Affermazioni del genere «ci siamo allontanati dalla realtà» o «abbiamo perso il contatto con la pancia dei nostri Paesi», sono già state pronunciate a corredo di altre rotture politiche clamorose. Analoghi giudizi furono pronunciati già 20 anni fa (sono negli archivi) a proposito dell’affermazione della Lega di Bossi o di Jorg Haider, leader del Partito della libertà austriaco e governatore della Carinzia, propugnatore delle «heimat», le piccole patrie a resistenza dei primi venti della globalizzazione cosmopolita.

Il ritorno ciclico degli stessi temi apre ad alcuni quesiti: i partiti occidentali di sinistra sono davvero intenzionati a dare rappresentanza a un elettorato popolare al quale guardano con sospetto, portatore di istanze considerate non conciliabili con i valori della sinistra? O continueranno a considerarli antropologicamente distanti, a guardarli con un senso di superiorità morale e culturale che chiude ogni discorso? Se queste domande non sono nemmeno a tema, allora certe analisi suonano un po’ ipocrite.

Bossi e Haider si muovevano dentro tradizionali forme di rappresentanza politica (i partiti) mentre l’outsider Trump si è affermato contro il suo stesso partito. I suoi voti vanno letti in controluce. Ha vinto in Stati che hanno eletto per due volte Obama (nel 2008 e nel 2012) ed ha conquistato un decimo degli elettori che avevano un’opinione positiva del presidente uscente. Ha raccolto preferenze non solo fra gli operai ma anche tra la classe media impoverita dalla crisi economica. Saskia Sassen, sociologa ed economista americana, autrice di un libro importante (il titolo è «Espulsioni») per conoscere gli effetti negativi della globalizzazione (che ha pure tanti meriti), ha affermato che «il fenomeno di Trump ha radici lontane, che risalgono almeno a 20-30 anni fa», datandolo proprio allo sgretolamento delle vecchie certezze. Trent’anni fa, quando «il nuovo corso di privatizzazioni - ha detto ancora Sassen - e di deregulation ha rotto gli schemi di protezione sociale. Negli anni si è affermata un’altra cultura di impresa, che io chiamo “estrattiva”. Per venire ai nostri giorni vediamo società come Google, Facebook e tante altre, “estrarre” dati, valore dalla vita delle persone, gratis. Non sono obbligate a prendersi cura di loro e non lo fanno».

La rivoluzione tecnologica (la cui portata non è meno importante di quella industriale dell’Ottocento) ha generato progresso e comodità, sostituendosi a sistemi di produzione che garantivano posti di lavoro che non torneranno mai più perché diventati superflui. Sommata con la crisi economica che ha intaccato le sicurezze della protezione dello Stato sociale, il terrorismo di matrice islamica, i conflitti senza prospettive di soluzione e le migrazioni, in una miscela destabilizzante. È riemersa allora d’attualità una parola importante, identità,che nel mondo senza frontiere suonava desueta. Il ritorno delle nazioni non è un tema solo europeo. Lo slogan del programma di Trump è «America first», l’America prima di tutto. Il tycoon ha conquistato la Casa Bianca saltando tutte le intermediazioni, a cominciare dal suo partito. Con un linguaggio estremista, ha rotto gli argini promettendo un cambiamento dirompente, dalla politica interna a quella estera.

Di fronte alla radicalità delle crisi che stiamo vivendo, servono risposte che segnino una rottura, una novità adeguata ai tempi. Noi europei siamo spettatori dei danni che leader politici privi di coraggio e di visione, di un’idea del mondo possono generare. Il confronto con l’impero americano a guida Trump è una sfida anche per il Vecchio continente e per le sue élite, per uscire dalle constatazioni tardive e per riconnettersi finalmente con la realtà.

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