La politica dei muri
abbattuta dalla Cina

Dopo la caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989), la fine della «Guerra fredda», l’apertura dei mercati, l’affermazione in molti Paesi di principi di libertà, nessuno avrebbe potuto immaginare che avremmo potuto assistere alla costruzione di nuovi muri. Eppure, ciò sta avvenendo. Ha cominciato Israele con la costruzione di un muro al confine con la Palestina; ha proseguito la Turchia, costruendo un muro al confine con la Siria; Grecia e Bulgaria hanno appena ultimato una barriera di filo spinato al confine della Turchia; l’Ungheria ha costruito una barriera al confine con la Serbia; altri Paesi dei Balcani si sono recentemente recintati gli uni dagli altri con filo spinato. Donald Trump, sia durante la campagna elettorale, sia dopo la sua elezione a presidente degli Usa, ha più volte manifestato l’intenzione di completare la costruzione di un grande muro al confine con il Messico.

La costruzione di muri è vista oggi come l’unico mezzo efficace nella lotta contro il terrorismo, i migranti, il traffico di armi e droga. Appare assai difficile comprendere come mai, mentre l’intelligenza artificiale sta ormai bussando a tutte le porte, l’idea medievale di costruire mura stia sempre più conquistando le masse. Molto dipende dal fatto che, in una condizione di diffusa emergenza sociale, molti esponenti politici trovano conveniente alimentare nella gente risentimenti verso chiunque rischi di aggravare le loro già pesanti condizioni di disagio. Per invertire questa tendenza sta assumendo un ruolo sempre più significativo l’azione incessante svolta da Papa Francesco, che appare sempre più l’unico vero leader mondiale in grado di ricondurre i popoli alla ragione. Dall’inizio del suo Pontificato, frequenti sono i suoi richiami alla «diplomazia della misericordia» e costanti sono i suoi interventi per rimarcare la necessità di «costruire ponti tra la gente, anziché muri». Principi questi che, insieme alla difesa dell’ambiente, ha richiamato a Trump nel suo recente incontro.

Negli ultimi tempi, fortunatamente, questa azione moderatrice del Papa ha trovato un’efficace sponda nelle iniziative del presidente cinese Xi-Jinping, sostenitore dell’abbattimento di tutte le barriere economiche e sociali tra gli Stati. Ironia della sorte, Xi è presidente proprio del Paese che nel VI secolo ha costruito la più «Grande muraglia» esistente al mondo, per cercare di contrastare, invano, l’avanzata dei mongoli. Nel gennaio scorso, ha suscitato grande scalpore l’intervento di Xi a Davos che, durato circa un’ora, è stato dedicato interamente all’importanza della cooperazione internazionale. Tra l’altro egli ha detto: «Nessuno sarà il vincitore in una guerra commerciale. Il perseguire della politica di isolazionismo è come il chiudersi in una stanza buia. Sarà la protezione contro la pioggia e il vento, ma allo stesso tempo non permetterà l’entrata del sole e dell’aria fresca».

Da queste significative parole emerge, di fatto, la strategia perseguita dal governo di Pechino che punta alla liberalizzazione degli scambi internazionali come chiave di volta per sostenere la crescita nazionale e, soprattutto, espandere la propria influenza verso l’esterno. Si stima che nei prossimi cinque anni la Cina, che già contribuisce al 30% della crescita globale, effettuerà circa 750 miliardi di dollari d’investimenti all’estero. Tra questi, vi sono quelli riservati alla cosiddetta «Nuova via della seta», che consentirà alla Cina di collegarsi con importanti infrastrutture ferroviarie, autostradali e portuali, con molti Paesi asiatici fino all’Europa.

Oggi, l’obiettivo di Xi è quello di utilizzare la posizione di forza acquisita negli ultimi dieci anni per far sì che la Cina si affermi come una potenza titolata a dettare le condizioni del sistema stesso.

Di fronte a questo scenario, Donald Trump, presidente del Paese ritenuto baluardo della globalizzazione e riconosciuto «leader del mondo libero», annuncia ogni giorno l’introduzione di dazi, la costruzione di muri e dichiara di voler uscire da tutti gli accordi multilaterali per passare ad accordi bilaterali. In tal senso, ha già firmato un decreto sul ritiro degli Usa dal Ttp (Trans pacific partnership), il più grande accordo commerciale tra 11 Paesi del Pacifico. Ancor più grave, però, è che abbia deciso di uscire dall’importante accordo multilaterale sul clima di Parigi, visto che gli Usa sono i maggiori inquinatori al mondo, contribuendo per circa il 40% alla produzione di CO2. La conferma di Francia, Italia e Germania di voler continuare a rispettare l’accordo, seguite subito dalla Cina, crea ulteriori presupposti per un ulteriore avvicinamento di quest’ultima all’Europa.

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