La Rai di Renzi
non dispiace a Mediaset

Come sarà la nuova Rai dell’era di Matteo Renzi? Certo con la nomina di Antonio Campo Dall’Orto, manager cinquantenne di lungo corso, fondatore di Mtv, leopoldiano della prima ora, è andata in soffitta l’epoca varata con la riforma del 1975, quando Dc, Psi e Pci si spartirono le tre reti e la lottizzazione regnava sovrana, o quasi («ne hanno assunto uno della Dc, uno del Psi, uno del Pci e uno bravo», ironizzava Enzo Biagi). La legge Mammì del 1991 e le successive riforme non fecero che confermare questo assetto politico, creativo e soprattutto identitario.

Con l’avvento del sistema elettorale maggioritario la Rai cominciò a cambiare direzione procedendo verso una gestione più univoca e meno sottoposta ai veti e alle spartizioni dei vari partiti. Lo si è visto già con Berlusconi, lo si vedrà ancor più con Renzi.

Dunque c’è molta attesa per capire come si specchierà dentro la Rai il nuovo «partito della nazione» dato che la Rai, come diceva Biagio Agnes, anticipa le scelte e le realizzazioni della politica di qualche anno. Nell’intervista rilasciata ieri a la Repubblica il nuovo «dominus» della Rai Campo dall’Orto delinea qualche piccolo cambiamento, dopo le nomine dei nuovi direttori di rete Andrea Fabiano, Ilaria Dallatana e Daria Bignardi. Notare che dei tre solo uno viene dai ranghi interni, ovvero dai dodicimila dipendenti Rai, gli altri due (per non parlare del nuovo titolare di Raisport) arrivano da fuori e questo non è particolarmente gratificante per chi ci lavora.

Dall’Orto parla di Rai trasformata in «Media Company» ma non si capisce bene cosa intenda, detto così sembrerebbe un’ovvietà. Annuncia il rafforzamento delle serie tv e delle fiction di impegno civile, come «Fuocoammare», su Lampedusa e «Io non mi arrendo», dedicata alla terra dei fuochi, e lo sviluppo del comparto digitale (Twitter? Facebook?). Ma, a parte il fatto che questo impegno c’era già anche prima della sua gestione, produrre film, fiction, serie tv e altri programmi di impegno civile è il minimo che si possa richiedere a un’azienda di servizio pubblico con tutti quei dipendenti. Il direttore generale della Rai ha anche proclamato un paio di editti: il primo è la messa al bando della striscia di cronaca nera dallo storico programma «Domenica In», il secondo è la scomparsa del cosiddetto «emotainment», ovvero dei programmi a forte contenuto emozionale.

A questo punto ci si chiede come la Rai, che è finanziata dalla doppia formula del canone e della pubblicità (che la condanna a ruolo di servizio pubblico ma anche di tv commerciale, due cose spesso impossibili da conciliare) potrà reggere la concorrenza con le tv «commerciali», a cominciare da Mediaset e da Sky. La sfida è dunque questa: restare popolare e non certo una televisione «di nicchia» con programmi di qualità che non cedono agli istinti e alle emozioni del grande pubblico. Vedremo come avverrà in pratica, ma c’è da scommettere che a Mediaset ieri, dopo aver letto l’intervista, hanno brindato a champagne per le praterie di «share» che la Rai intende abbandonare.

«Alla fine i cambiamenti si vedranno e il Paese li saprà cogliere» conclude Dall’Orto, cui Renzi ha dato carta bianca per riformare la Rai, un ruolo che non aveva nemmeno Ettore Bernabei agli albori della televisione di Stato. La verità è che Dall’Orto non ha ancora scoperto le sue carte e le sorprese, come quelle della nomina di Daria Bignardi al posto di Andrea Salerno, fatta all’ultimo minuto, non mancheranno. Anche se va detto che il ruolo di mamma Rai, con l’avvento del satellitare e di Internet, oggi è molto meno rilevante di quanto lo fosse dieci anni fa. Anche per il potere.

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