La santità di Paolo VI e la Chiesa
in uscita di Papa Francesco

Forse è un caso. O forse no. Nel giorno in cui Papa Francesco sferza la Curia con un altro discorso che lascia il segno denunciando la logica dei «complotti» o delle «piccole cerchie», linguaggio fine e letterario per definire le degenerazioni delle lobby e dei gruppi di interessi contrapposti, viene annunciato il miracolo attribuito all’intercessione di Paolo VI, che così sarà santo. Non si tratta di un contrappunto comunicativo per riequilibrare il durissimo intervento di Bergoglio, ma di una continuità sostanziale di riflessione e di metodo tra due Pontefici, che hanno chiesto alla Chiesa intera, Curia compresa, di liberarsi dai pesi, dalle ambizioni, dalle lotte, dalle zavorre che nulla hanno a che vedere con il Vangelo, per «vedere l’essenziale».

C’è una tenacia nell’azione di Francesco per riportare la Curia romana alla funzione stretta di servizio alla Chiesa. Ieri ha parlato di funzione «diaconale», riferendosi al ruolo del vescovo di Roma, cioè del Papa, e per esteso di tutti coloro che con il Papa sono chiamati a collaborare. Qualche anno fa aveva elencato le malattie della Curia, poi aveva sottolineato che non basta un «lifting» come quando si tolgono le rughe. Le rughe della Chiesa non dispiacciono al Papa, ma sono le «macchie» che vanno ripulite. Ieri si è capito definitivamente che il percorso sarà lungo e pieno di insidie. Eppure Bergoglio non cede all’impresa, anzi la rafforza. La riforma della Curia è stata una delle prime azioni che ha intrapreso nemmeno un mese dopo l’elezione con la nomina di quel Consiglio dei cardinali, che con pazienza e saggezza sta analizzando fin nelle pieghe più nascoste, un’istituzione che nei secoli ha dato il meglio e il peggio di se stessa. Intrighi,imbrogli, pasticci, congiure e cospirazioni sono stati tratti costanti del governo centrale della Chiesa. Non c’è da stupirsi, perché la Chiesa è fatta di uomini.

Tuttavia non è questa la sola narrazione possibile. Francesco ieri è stato chiarissimo, quando ha avvisato che c’è chi si approfitta della fiducia e addirittura della «maternità» della Chiesa, ma c’è anche, ed è la maggioranza, chi lavora con dedizione e «tanta santità». È la storia stessa della Chiesa. E proprio per questo i Papi con tenacia e coraggio hanno sferzato la Curia ricordando che non solo il Papa deve essere il servo dei servi di Dio. La vera riforma è convincersi ogni giorno che occorre tornare all’essenziale. E qui spunta Paolo VI, anche lui preoccupato nel 1963, tre mesi dopo l’elezione al soglio di Pietro di questa istituzione che definì «antica, complessa venerabile». Montini la conosceva benissimo per averla frequentata praticamente sempre prima di essere nominato vescovo e cardinale a Milano.

Aveva visto le difficoltà nel rapporto tra la Curia e il Concilio e aveva ben presente le resistenze che ci sarebbero state nel post-Concilio. Anche lui mise mano ad una riforma e fece cose clamorose, come l’abolizione dell’Indice e la riforma delle indulgenze, ma soprattutto l’immissione nelle congregazioni romane di vescovi consigliati dalla Conferenze episcopali locali. Ha aperto le porte della Curia, ci ha infilato dentro il mondo e fatto uscire la Chiesa. «Chiesa in uscita», direbbe oggi Bergoglio, che non affatto a caso annuncia la canonizzazione di Montini nel giorno in cui sottolinea di nuovo che il concetto di autorità va purificato, smacchiato e riportato «al suo originario e cristiano criterio», come disse Paolo VI nel 1965. Non sarà facile. Richiederà tempo, come «pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti». Ma si può fare. Si chiama fatica dei credenti.

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