La sinistra in cerca
del popolo perduto

Emotivamente instabile, stordita e divisa, più goffa che romantica, la sinistra europea insegue se stessa e un popolo che non c’è più, che le è scappato di mano. Di questo travaglio potrebbe approfittare la destra radicale, che ha già saccheggiato il serbatoio elettorale dei socialisti. Il tempo e gli errori altrui lavorano per lei. Guardiamo la Francia, a meno di due mesi dal primo turno delle elezioni presidenziali. Benoît Hamon ha vinto le primarie socialiste ma la sua è una vittoria di Pirro. Quattro anni fa si sarebbe garantito il passaporto per l’Eliseo, adesso rischia di ritrovarsi con un pugno di mosche perché le primarie sono belle però, direbbe Frassica, hanno un difetto: dividono. E lui, nato cattolico di sinistra, diventato grande sotto l’ala protettrice di François Hollande e Manuel Valls, sta facendo una fatica del diavolo a rimettere insieme i cocci del partito che ha mandato in frantumi.

Obbligato a prendere le distanze dal presidente uscente per non affondare insieme al Titanic, ha scavato il solco tra chi rivendica la legittima necessità di una sinistra di governo e chi invece sogna un mondo nuovo e quindi migliore: chiamiamoli social democratici e ideal-progressisti per fare in fretta. Ormai è come se due sinistre (due anime) vivessero dentro lo stesso corpo (partito) senza avere non diciamo un’origine ma nemmeno un passato comune.

Al contrario, da un punto di vista strettamente ideologico, la destra moderata tiene ancora perché il modello liberal-autoritario vive di luce riflessa del radicalismo populista, da cui riesce a differenziarsi quel tanto che basta per mantenere un profilo autonomo.

Quando François Fillon vinse le primarie del centrodestra, le vinse perché era percepito più a destra, cioè più radicale del morbido Alain Juppé. Un mese fa il leader neogollista aveva tutto per diventare presidente della Repubblica, adesso quel traguardo sembra impossibile. Ma non perché la Francia abbia voltato le spalle alla destra, bensì perché lui ha perso la fiducia degli elettori di destra. Scaricato ieri anche dai big del suo partito, che vorrebbero recuperare Alain Juppé, Fillon è rimasto impantanato nella questione morale e ne sta pagando un conto salatissimo. Un giornale satirico, Le Canard Enchainé, l’aveva preso con le mani nella marmellata (sua moglie Penelope avrebbe percepito lo stipendio di assistente parlamentare senza aver mai messo piede in Parlamento): un’ inchiesta «suggerita» da Sarkozy, sussurrano le malelingue, ma poco importa. Oltralpe non esistono i grillini, non ancora almeno, eppure l’aria velenosa dell’antipolitica è già in circolo. In Francia i politici di carriera sono decine di migliaia e solo una decina arriva a questi livelli. Una selezione da astronauti. Nessuno può permettersi di finire in pasto al popolo come un mariuolo qualunque.

Emmanuel Macron è il caso più singolare. Viene dai ranghi del centro sinistra, ma proclamandosi «Né di destra né di sinistra» vuole catturare gli elettori dei due campi, pronto a chiuderli nella cassaforte della gauche una volta che la transizione politica avrà fatto emergere un nuovo scenario politico. Lui stesso è un paradosso vivente. Ex banchiere di Rotschild, si autoproclama «il vero candidato delle classi popolari e della classe media». Ha l’aria perbenina del secchione, ma quelle due classi non le ha mai frequentate, non le ha mai viste, nemmeno in cartolina.

Politicamente, è il più facile da interpretare. Sta tentando il colpaccio riuscito ai laburisti inglesi negli anni ’90. Tony Blair non aveva rinunciato a essere di sinistra però, con numeri da funambolo, era riuscito a catturare elettori tradizionalmente di destra verso una sinistra tirata a lucido tanto da sembrare nuova, diversa.

In questo Macron ha due precedenti illustri al di qua della Manica. Nel 1988 François Mitterrand s’inventò il mantra prudente «né nazionalismi né privatizzazioni» e si lasciò scivolare tartufescamente verso destra. Alle Presidenziali del 1995 Jacques Chirac, per neutralizzare Edouard Balladur, giurò di ricomporre le «fratture sociali», espressione non proprio diffusissima nei vocabolari della destra.

Ma Macron detiene un’altra singolarità, perché le posizioni liberali, specie in economia, non sono dentro la storia francese. E allora potrebbe accadere che per fermare la francesissima Madame Marine i cugini d’Oltralpe si affidino al molto inglese Macron. Visto con il sereno distacco dello spettatore straniero, sarebbe un gradevole paradosso indotto dal populismo.

A proposito. Lo storico delle idee Pierre Rosanvallon ha fiutato una svolta populista nella campagna presidenziale. È accaduto il 28 febbraio quando Fillon dal palco fustigò lo «strapotere dei giudici» e il ruolo nocivo dei media («Questo è un assassinio politico, non sono solo io a essere assassinato stasera, ma le elezioni stesse»), aggiungendo che il «solo, unico giudice è il popolo». Mai era accaduto che un candidato della destra moderata usasse toni cosi aggressivi, il marchio di fabbrica della visione populista della democrazia. Sono gli stessi toni, le stesse frasi che ascoltiamo negli Stati Uniti, in Turchia, in Russia, in Ungheria da Putin, Orban, Trump, Erdogan.

Post Scriptum

I sondaggi non danno troppe speranze a Marine Le Pen. Ma dopo anni all’ombra del padre (padrone) è riuscita in un’impresa colossale, quella di sdoganare un’idea, prima ancora che un partito. Ora la destra radicale ha diritto di cittadinanza sulla scena francese. Marine torna sul palcoscenico al momento giusto, e l’impressione è che vada a memoria là dove gli altri debbono ancora pensare. Ha girato a vuoto per anni ma la politica si è fermata ad aspettarla, e per farlo ha cambiato se stessa. L’inverno è alle spalle.

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